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Sierologico Come Si Legge?

Sierologico Come Si Legge
Come leggere il risultato del test sierologico Covid 19 solo IgM positive: l’esposizione all’antigene è molto recente; IgM e IgG positive: l’infezione è in corso ed è stata contratta da poco tempo; solo IgG positive: l’infezione c’è stata ma non è recente.

Come si fa a sapere se si è immuni al Covid?

A COSA SERVE IL SIEROLOGICO? – Ad oggi, fatta eccezione per sofisticati metodi disponibili attraverso tecniche di indagine accademica, l’unica via per capire se si è sviluppata una risposta immunitaria in seguito all’incontro con il virus o è rappresentato dai test sierologici,

Questi possono essere essenzialmente di due tipi: quelli rapidi e quelli quantitativi. I primi, grazie ad una goccia di sangue, stabiliscono se la persona ha prodotto anticorpi -e quindi è entrata in contatto con il virus-; i secondi, dove serve un prelievo, dosano in maniera specifica le quantità di anticorpi prodotti,

In entrambi i casi i test sierologici vanno alla ricerca degli anticorpi (immunoglobuline) IgM e IgG. Le IgM vengono prodotte temporalmente per prime in caso di infezione. Con il tempo il loro livello cala per lasciare spazio alle IgG. Quando nel sangue vengono rilevate queste ultime, le IgG, significa che l’infezione si è verificata già da diverso tempo e la persona ha sviluppato immunità al virus.

  • Avere gli anticorpi” però non significa essere per forza protetti dall’infezione,
  • Nel tempo questi calano e per un eventuale incontro con il virus non sono sufficienti ad evitare l’infezione.
  • Ed è in questi casi che subentra la risposta delle cellule T.
  • I dati parlano chiaro: mentre nel tempo la reattività delle cellule B e la quantità di anticorpi neutralizzanti cala ed è molto ridotta contro Omicron -ragione per cui si è optato per la dose booster-, la risposta delle cellule T non subisce lo stesso brusco calo.

La ragione è presto detta: le cellule T di ogni individuo vaccinato sono “allenate” a riconoscere non un solo elemento della proteina spike ma in media una ventina di porzioni differenti del virus, motivo per cui queste cellule non risentono in maniera significativa della variante che si trovano di fronte.

Per chi ha avuto il Covid quanto durano gli anticorpi?

Ogni volta che entriamo in contatto con Sars-Cov-2 -che sia per infezione o “vedendo” la proteina spike grazie alla vaccinazione – il nostro corpo comincia a produrre una risposta immunitaria che si conclude con la creazione della cosidetta “memoria immunologica”, ovvero la creazione di cellule della memoria capaci di riattivarsi prontamente in caso di nuovo incontro con il nemico.

  • Quanto duri questa “memoria” però varia a seconda del virus che si incontra.
  • Per quanto riguarda Sars-Cov-2 sempre più numerosi studi indicano una durata a lungo termine.
  • Questo non significa che una volta contratto il virus -o vaccinati- non ci si possa ammalare più.
  • Però, l’eventuale nuovo incontro con il virus, produrrà una malattia più lieve,

Il merito è in particolare delle cellule T, componenti del sistema immunitario capaci di riconoscere ed eliminare le cellule infettate. A tal proposito, secondo un recente studio pubblicato sulle pagine della rivista Pnas, queste cellule sarebbero ancora rilevabili a due anni dalla prima infezioni.

Cosa vuol dire avere IgA basse?

CHE COS’È Le IgA sono una classe di anticorpi che proteggono dalle infezioni le superfici della mucosa intestinale e della mucosa respiratoria. Il deficit selettivo di IgA è il più frequente tra i difetti congeniti del sistema immunitario ed è caratterizzato dalla diminuzione delle IgA nel sangue.

Quali sono le analisi del sangue per controllare le difese immunitarie?

I test sierologici per verificare la presenza e il dosaggio degli anticorpi – I test sierologici sono esami volti a rilevare i livelli di anticorpi nel sangue. Richiedono un prelievo di sangue, e non di muco, come nel caso dei tamponi, Ce ne sono di due tipi: quantitativi e qualitativi.

I test quantitativi, come il test ELISA, enzyme-linked immunosorbent assay, permettono di conoscere la quantità di anticorpi attraverso un prelievo sanguigno e un’analisi in laboratorio. Misurano laconcentrazione totale delle IgG, IgA e IgM I test qualitativi o test rapidi permettono di appurare se ci sia stata una risposta immunitaria a un dato antigene. Prelevano, mediante una pipetta sterile monouso, una goccia di sangue, ottenuta pungendo con una lancetta sterile la punta del dito medio o anulare, e la rilasciano all’interno della cassetta del test. Nel giro di pochi minuti, il test colora delle asticelle in corrispondenza con nessuno, uno o due anticorpi

Le due categorie di anticorpi che si rilevano in questi test sono gli IgM e gli IgG, I primi compaiono alcuni giorni dopo l’inizio della malattia e a un certo punto regrediscono, gli IgG permangono invece dopo che il virus non è più presente nelle mucose.

Qual è il gruppo sanguigno che non prende il Covid?

Relazione tra gruppo sanguigno ed esposizione a Sars-Cov-2 e Covid-19 – Fnopi L’infermiere INTRODUZIONE Dal primo focolaio scoppiato nel dicembre 2019 a Wuhan, Cina, il SARS-CoV-2 si è rapidamente diffuso in tutti i paesi del mondo, costringendo l’OMS a dichiarare lo stato di pandemia globale a causa dell’alto grado di contagiosità del virus e della sua potenziale letalità (Zhou, et al., 2020).

Sebbene il virus continui a rappresentare una minaccia per la salute dei cittadini di tutto il mondo, sono stati fatti molti progressi nello studio delle modalità di trasmissione, sui possibili trattamenti del COVID-19, sulle misure di prevenzione ed i comportamenti da attuare per ridurne la diffusione e sui fattori di rischio (Pini, et al., 2020).

In particolar modo riguardo questi ultimi, sono stati condotti diversi studi circa la possibilità che il sistema AB0, quindi l’appartenenza ad un gruppo sanguigno rispetto ad un altro, costituisca un elemento da tenere in considerazione quando si parla sia di suscettibilità al SARS-CoV-2 sia di morbilità e mortalità correlate alla COVID-19 (Mendy, et al., 2020).

Questo articolo si propone di approfondire la correlazione tra gruppo sanguigno ed esposizione alla COVID-19 attraverso una revisione della letteratura, in modo da fornire un quadro quanto più completo possibile sui risultati emersi a livello internazionale. Attraverso la consultazione delle banche dati Pubmed, Cochrane Library e ILISI, sono stati identificati 44 articoli potenzialmente eleggibili.

Sono stati definiti i seguenti criteri di inclusione: anno di pubblicazione (2020; 2021), pertinenza con l’argomento (esposizione dei gruppi sanguigni al SARS-CoV-2, progressione della COVID-19 in relazione al gruppo sanguigno di appartenenza) e campione di riferimento (pazienti affetti da COVID-19, pazienti con gruppo sanguigno noto, popolazione adulta).

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Di tutti gli articoli rintracciati 33 sono risultati conformi ai criteri di inclusione prefissati. Sebbene non siano stati posti limiti al riguardo, tutti gli articoli sono redatti in lingua inglese (ad eccezione di un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità redatto in lingua italiana). Gli studi presi in esame sono stati condotti principalmente in Cina, America del Nord ed Europa.

La ricerca degli articoli è stata svolta nel periodo compreso tra novembre 2020 e febbraio 2021. DISCUSSIONE La maggior parte degli articoli analizzati sostengono la tesi secondo cui il gruppo sanguigno possa essere annoverato tra i fattori di rischio al pari di età, genere, stile di vita e patologie pregresse (Li e Yamamoto, et al., 2020).

In particolare i gruppi sanguigni A ed AB sarebbero maggiormente a rischio di infezione (Amoroso, et al., 2021), e la responsabilità di ciò sarebbe da attribuire all’antigene A, che faciliterebbe l’interazione della glicoproteina S del SARS-CoV-2 con l’enzima 2 convertitore dell’angiotensina (ACE2), principale recettore del virus da cui avverrebbe il processo di infezione delle cellule (Yang, et al., 2020).

Al contrario il gruppo 0 risulterebbe il gruppo sanguigno con il minor rischio di infezione, essendo sprovvisto dell’antigene A ma munito di anticorpi anti-A, che inibirebbero l’interazione del virus con ACE2 (Zhao, 2020) e, a tal proposito viene sottolineato che sebbene anche i gruppi sanguigni B abbiano la medesima caratteristica, gli anticorpi anti-A presenti nei suddetti gruppi sanguigni appartenendo alle classi IgG per gli anticorpi del gruppo 0 e IgM per quelli del gruppo B, avrebbero una differente efficacia nel processo di inibizione (Franchini, et al., 2021).

Inoltre uno studio genomico svolto su un particolare cluster genetico (3p21.31), confermerebbe il coinvolgimento del sistema AB0 nel determinare l’esposizione di alcuni individui rispetto ad altri alle complicanze della COVID-19 (Ellinghaus, et al.2020), con il gruppo A associato ad un maggior rischio di esposizione rispetto ai gruppi non A.

Nonostante buona parte degli articoli siano concordi nell’affermare che il gruppo sanguigno debba essere annoverato tra i fattori di rischio di esposizione al SARS-CoV-2, tale teoria non è del tutto esente da critiche. Sono stati infatti eseguiti alcuni studi atti a smentire che l’appartenenza ad un gruppo sanguigno rispetto ad un altro sia elemento rilevante al fine di stabilire se un individuo sia esposto ad un maggior rischio di contrarre la COVID-19 (Flegel, 2020), non essendo tale ipotesi dimostrata con incontrovertibile certezza, muovendo obiezioni principalmente alla metodologia con cui sono stati condotti gli studi, alla quantità ed alla qualità dei dati raccolti, con campioni di riferimento e intervalli di tempo troppo ristretti per poter essere considerati sufficienti, nonché setting epidemiologici delineati in maniera troppo generica.

A parità di campione di riferimento e metodo di indagine, i dati raccolti non conducono agli stessi risultati degli studi che sostengono l’influenza del sistema AB0 sulla suscettibilità degli individui al SARS-CoV-2, incongruenza che di fatto smentirebbe la suddetta teoria (Boudin, et al., 2020). Vengono inoltre sollevati dubbi di carattere morale sul sostenere la tesi che annovera il gruppo sanguigno tra i fattori di rischio, in quanto ciò spingerebbe gli individui appartenenti a gruppi sanguigni considerati meno a rischio ad attuare condotte poco responsabili, come il non indossare correttamente i presidi di protezione e non rispettare le norme di distanziamento sociale, o ancora i datori di lavoro potrebbero incoraggiare o forzare un rientro anticipato dall’isolamento preventivo dei dipendenti in possesso di “geni protettivi” (Klitzman, 2020).

CONCLUSIONI Attraverso la revisione della letteratura sono state portate alla luce due posizionI diametralmente opposte ed entrambe potenzialmente valide. La prima, supportata da numerosi articoli, sostiene che il gruppo sanguigno debba essere considerato un fattore che influisce sulla effettiva esposizione al virus ed alla patologia ad esso associata, con i gruppi sanguigni A e AB maggiormente predisposti ad acquisire un’infezione da SARS-CoV-2 ed esposti alle complicanze della COVID-19 (Hoiland et al., 2020), ed il gruppo 0 esposto ad un rischio minore.

La seconda teoria al contrario sostiene che non vi sia alcuna dimostrazione effettiva dell’esistenza di una correlazione tra gruppo sanguigno e rischio di infezione e progressione della patologia. Pertanto sulla base di quanto emerso non è ancora possibile stabilire con certezza quanto e se effettivamente il gruppo sanguigno di un individuo influenzi la suscettibilità all’infezione e la morbilità e la mortalità della patologia, considerando soprattutto le potenziali ripercussioni che può avere sull’aderenza delle persone alle norme di prevenzione del contagio.

La teoria secondo cui un gruppo sanguigno aumenti il rischio di contrarre la patologia rispetto agli altri dovrebbe essere approfondita ulteriormente attraverso studi più ampi e dettagliati, al fine di dissipare ogni ragionevole dubbio al riguardo.

Conflitto di interessi Si dichiara l’assenza di conflitto di interessi. Finanziamenti Gli autori dichiarano di non aver ottenuto alcun finanziamento e che lo studio non ha alcuno sponsor economico.

: Relazione tra gruppo sanguigno ed esposizione a Sars-Cov-2 e Covid-19 – Fnopi L’infermiere

A cosa serve il test sierologico?

I test sierologici permettono di individuare la presenza di anticorpi al virus SARS CoV-2.

Quanto restano nel sangue gli anticorpi Covid?

Gli anticorpi Covid persistono nel sangue per almeno 8 mesi.

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Quanto dura l immunità dopo aver preso il Covid Omicron?

A tre anni dall’inizio della pandemia, il sistema immunitario della stragrande maggioranza degli esseri umani ha imparato a riconoscere SARS-CoV-2 attraverso la vaccinazione, l’infezione o, in molti casi, entrambe le cose. Ma quanto rapidamente svaniscono questi tipi di immunità? Nuovi dati suggeriscono che l’immunità “ibrida”, frutto sia della vaccinazione che di un attacco di COVID-19, può fornire una protezione parziale contro la reinfezione per almeno otto mesi,

Inoltre, secondo le stime di una metanalisi, offre una protezione superiore al 95 per cento contro malattie gravi o ricoveri ospedalieri per un periodo compreso tra sei mesi e un anno dopo un’infezione o una vaccinazione, L’immunità acquisita con la sola vaccinazione di richiamo sembra svanire un po’ più rapidamente.

Ma la durata dell’immunità è molto più complessa di quanto suggeriscano i numeri. Quanto a lungo il sistema immunitario può respingere l’infezione da SARS-CoV-2 dipende non solo da quanto l’immunità diminuisce nel tempo, ma anche da quanto bene le cellule immunitarie riconoscono il loro bersaglio.

  • E questo ha più a che fare con il virus e con il suo grado di mutazione”, afferma Deepta Bhattacharya, immunologo all’University of Arizona College of Medicine di Tucson.
  • Se una nuova variante trova il modo di sfuggire alla risposta immunitaria esistente, anche un’infezione recente potrebbe non garantire la protezione.

L’era Omicron Omicron ha presentato proprio questo scenario. A fine 2021 e a inizio 2022, le principali sottovarianti di Omicron che stavano causando infezioni erano BA.1 e BA.2. A metà 2022, l’ondata di BA.5 si stava rafforzando in alcuni paesi, facendo crescere la prospettiva secondo cui coloro che erano stati già colpiti da Omicron potessero presto essere colpiti di nuovo.

I dati forniscono ora un’idea del rischio di reinfezione nel tempo. In uno studio, i ricercatori che hanno esaminato la banca dati nazionale portoghese delle infezioni hanno studiato le persone vaccinate che si sono infettate durante l’ondata BA.1/BA.2. L’analisi ha mostrato che 90 giorni dopo l’infezione, questa popolazione aveva un’elevata protezione immunitaria: il rischio di contrarre l’infezione da BA.5 era solo un sedicesimo di quello delle persone vaccinate ma mai infettate.

In seguito, l’immunità ibrida contro l’infezione è diminuita bruscamente per alcuni mesi e poi si è stabilizzata, fornendo infine una protezione per otto mesi dopo l’infezione, la durata dello studio. Sierologico Come Si Legge Un altro studio ha preso in esame 338 operatori sanitari vaccinati in Svezia, alcuni dei quali avevano anche avuto una precedente infezione da SARS-CoV-2. Gli autori hanno scoperto che i lavoratori con immunità ibrida avevano un certo livello di protezione contro l’infezione da BA.1, BA.2 e BA.5 per almeno otto mesi.

Il tampone nasale di questi lavoratori ha rivelato alti livelli di anticorpi “mucosali”, che si ritiene siano uno scudo migliore contro l’infezione rispetto agli anticorpi che circolano nel sangue. Uno studio in Qatar ha confrontato i rischi di infezione di persone che non avevano mai preso SARS-CoV-2 con quelli di persone che avevano avuto una precedente infezione da Omicron o da una variante precedente.

Entrambi i gruppi includevano persone vaccinate e non vaccinate. I risultati mostrano che in tutti i casi le infezioni più recenti forniscono una protezione maggiore rispetto a quelle più vecchie. Ma poiché il virus continua a evolversi, gli autori non sono riusciti a capire se queste differenze siano dovute al calo dell’immunità, alla crescente capacità del virus di eludere la risposta immunitaria o, più probabilmente, a una combinazione delle due cose.

  • Tregua dall’infezione Nel complesso, gli studi suggeriscono che l’immunità ibrida fornisca una certa protezione contro l’infezione per almeno sette o otto mesi, e probabilmente più a lungo.
  • È un buon risultato”, afferma Charlotte Thålin, immunologa al Karolinska Institutet di Stoccolma e autrice dello studio svedese.

Altri dati suggeriscono che nelle persone la cui immunità deriva solo dalla vaccinazione, una dose di richiamo fornisce una protezione contro l’infezione di durata relativamente breve. Alcuni ricercatori israeliani hanno studiato più di 10.000 operatori sanitari che non erano stati precedentemente infettati; tutti hanno ricevuto tre o quattro dosi del vaccino prodotto da Pfizer e BioNTech. Sierologico Come Si Legge Tuttavia, “stiamo parlando di una malattia che definiamo relativamente lieve”, afferma il coautore dello studio Gili Regev-Yochay, epidemiologo allo Sheba Medical Center Tel Hashomer di Ramat Gan, in Israele. Nessuna delle persone coinvolte nello studio ha sviluppato una forma grave di COVID-19.

  • E chi non è stato vaccinato? Un altro studio effettuato in Qatar suggerisce che, se il virus non cambia, l’immunità contro la reinfezione basata sull’infezione può durare fino a tre anni.
  • Ma questa immunità può svanire più rapidamente se il virus muta.
  • Gli autori hanno studiato i dati di persone non vaccinate che sono state infettate con una variante pre-Omicron.

Quindici mesi dopo, quelle infezioni avevano un’efficacia inferiore al dieci per cento nel proteggere dall’infezione da Omicron. È molto più rischioso affidarsi all’immunità da infezione che immunizzarsi. Ma è quasi impossibile applicare i risultati dello studio per prevedere il rischio di infezione di un individuo in futuro.

L’immunità dipende da una serie di fattori, tra cui la genetica, l’età e il sesso. Inoltre, il rischio di infezione passato non è necessariamente un buon predittore del rischio di infezione futura, poiché si verificano continuamente nuove varianti. L’opportunità del richiamo Non è ancora chiaro come la crescente immunità ibrida globale influenzerà i tempi e la frequenza dei picchi di infezione.

Né è chiaro come questo influenzerà le decisioni dei funzionari sanitari su quando offrire le future dosi di richiamo. Per le persone ad alto rischio di sviluppare una grave forma di COVID-19, potrebbe essere ragionevole sottoporsi a richiami frequenti.

Gli individui più giovani senza fattori di rischio che vivono in regioni in cui il virus circola liberamente “potrebbero già avere una protezione molto significativa che potrebbe non richiedere richiami frequenti”, afferma Luís Graça, immunologo della facoltà di medicina dell’Università di Lisbona e coautore dello studio portoghese.

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Un’altra opzione potrebbe essere quella di somministrare un richiamo quando i livelli di anticorpi scendono al di sotto di una certa soglia, afferma Regev-Yochay. Thålin si rende conto di quanto possano essere frustranti gli avvertimenti e l’incertezza, ma afferma che è improbabile che i ricercatori riescano a trovare una risposta in tempi brevi.

Chi prende il Covid per la seconda volta?

Ripetere la COVID è possibile – Ci si può reinfettare con COVID-19 ? Dopo averla presa, è possibile venire contagiati di nuovo? A distanza di tempo? Di quanto tempo? E i rischi sono gli stessi della prima infezione? Le risposte a queste domande hanno purtroppo trovato una triste, per quanto prevedibile, conferma, a seguito della diffusione della variante Omicron 5, che si è dimostrata capace di eludere le difese immunitarie sviluppate tanto su precedenti infezioni che, almeno in parte, sui vaccini.

“I soggetti che siano stati infettati da SARS-CoV-2 possono aspettarsi di essere reinfettati entro 1-2 anni, a meno che non prendano precauzioni come farsi vaccinare e indossare mascherine, secondo la previsione di modelli basati sulle relazioni genetiche tra SARS-CoV-2 e altri coronavirus.” Queste sono le parole con cui esordiva uno studio su Nature pubblicato nell’inverno del 2021, ma la recente impennata di casi di contagio ha dimostrato che si trattata almeno in parte di previsioni ottimistiche, scalzate dall’aumentata trasmissibilità della variante Omicron: anche i soggetti immunizzati in modo naturale, ovvero in contrapposizione ai vaccinati, possono aspettarsi di venire nuovamente contagiati, o prima o dopo, a seconda di fattori quali stato del proprio sistema immunitario, grado di esposizione al virus e variante contratta in passato.

Le sottovarianti Omicron BA.4 e BA.5 di SARS-CoV-2 hanno dimostrato di essere più abili ad evadere le difese immunitarie rispetto alle varianti precedenti, ma ricerche recenti mostrano che l’infezione precedente con una variante più vecchia (come Alpha, Beta o Delta) offre una certa protezione contro la reinfezione con BA.4 o BA.5 e che una precedente infezione da Omicron è ancora più efficace. Sierologico Come Si Legge Shutterstock/GoodStudio Acquisisce invece sempre più credito l’ipotesi che la malattia possa trasformarsi in endemica :

Una malattia è pandemica quando si diffonde rapidamente su vastissima scala, ad esempio tutto il mondo in pochi mesi come l’attuale COVID-19. Una malattia è epidemica quando colpisce quasi simultaneamente un insieme di persone, ma con una ben delimitata diffusione nello spazio e/o nel tempo, ad esempio l’ influenza stagionale in inverno. Un modo carino che ho trovato per ricordare la differenza tra epidemia e pandemia e che la seconda, “P”andemia, ha il “P”assaporto per andare ovunque nel mondo, è cioè un’epidemia che viaggia molto. Una malattia è endemica quando è costantemente presente, o molto frequente, in una popolazione o territorio, ad esempio la malaria in alcune zone asiatiche ed africane, tipicamente con livelli elevati ma più o meno costanti nel tempo. Una malattia sporadica, te lo dico giusto per completezza, è invece una condizione che si presenta in modo non frequente e soprattutto imprevedibile, senza alcuna regolarità.

Secondo molti ricercatori la COVID-19 potrebbe diventare una malattia endemica, seppure su scala molto vasta, trasformandosi cioè da un’emergenza mondiale ad una presenza costante, magari caratterizzata da periodiche epidemie, ma in qualche modo sotto controllo.

È tra l’altro lo stesso pensiero anche del CEO di Pfizer, che in una passata intervista ha espresso lo stesso parere, ipotizzando però che questo passaggio avvenga non prima del 2024 o comunque quando le popolazioni potranno godere di una sufficiente immunità da vaccini o da precedenti infezioni, tali per cui si riuscirà a tenere sotto controllo trasmissioni, ricoveri e decessi nonostante la circolazione del virus.

E questo purtroppo potrebbe anche succedere con passi diversi, le nazioni dove le vaccinazioni hanno avuto maggior diffusione potrebbero raggiungere prima questa condizione l’ennesima triste dimostrazione di come la storia non cambi mai piove sempre sul bagnato Il TheAtlantic a mio avviso sintetizza alla perfezione questa idea, scrivendo che la parola “endemica” è usata per descrivere il punto in cui il pericolo del virus si riduce fino ai livelli dell’influenza o, meglio ancora, del raffreddore,

Nella sua definizione tecnica, tuttavia, endemica è un termine che descrive un equilibrio, un punto in cui l’immunità acquisita in una popolazione è bilanciata dall’immunità persa. L’immunità può essere acquisita attraverso la vaccinazione o l’infezione naturale e può essere persa attraverso la naturale diminuzione della risposta immunitaria, l’insorgenza di nuove varianti o più semplicemente il turn-over della popolazione, quando cioè vengono a mancare anziani immuni e nascono bambini nuovamente suscettibili.

In questa situazione l’impatto di un agente patogeno diventa molto più prevedibile e stabile, seppure magari con periodiche fluttuazioni legate ad esempio alla stagionalità. Un secondo studio, condotto questa volta in Quatar, ha rilevato che dopo la prima ondata circa il 40% della popolazione era entrata in contatto con il virus.

Sono state poi analizzate due successive ondate, rispettivamente da variante alfa e poi da variante beta: com’è cambiato il rischio di nuova infezione e soprattutto di mortalità? Anche in questo caso le persone sono tornate ad essere positive, seppure con una probabilità sensibilmente inferiore rispetto a quelli mai venuti in contatto, ma fortunatamente i casi di reinfezioni vedevano abbattersi del 90% il rischio di ospedalizzazione o morte.

L’autore conclude senza una risposta con le stesse domande che ci siamo già posti: Quanto dura questa protezione? Magari come per il raffreddore, ovvero assoluta per un breve periodo e poi tendente alla diminuzione ma mantenendo un’immunità più a lungo termine verso le complicazioni? Boh? Possibile Speriamo perché potrebbe essere la strada verso l’agognato andamento endemico