Gli oppressi e gli oppressori – A partire dal primo capitolo, quando l’autore traccia un generale quadro della situazione sotto il dominio straniero, e, tramite l’incontro di don Abbondio con i bravi, evidenzia la popolazione per lo più divisa tra oppressi e oppressori, e la condizione nella quale si trovavano i meno pavidi e coraggiosi che, per non essere vittime di tali angherie, erano costrette a raggrupparsi in corporazioni o a rifugiarsi sotto la protezione di una delle due più potenti classi sociali: la chiesa.
Il piccolo clero locale era, tuttavia, impotente di fronte a tale prepotenza e presa di potere da parte dei nobili, ricchi e potenti, e viveva, quindi, in un continuo clima di terrore, spesso costretto ad atteggiamenti di servilismo. La giustizia, all’epoca dei Promessi Sposi, era gestita dai potenti, i signorotti dei paesi che, tramite un considerevole numero di bravi (rifugiatisi sotto la loro protezione dopo aver commesso reati) al loro servizio, commettevano soprusi e angherie ed, inoltre, grazie il loro potere, corrompevano altri rappresentanti della giustizia o si facevano amici di altri potenti.
I nobili molto spesso pretendevano di sostituirsi alla legge, di far coincidere le loro volontà con essa. La dimostrazione lampante del sistema giudiziario secentesco l’abbiamo nel terzo capitolo, quando Renzo, consigliato da Agnese si reca dall‘avvocato soprannominato Azzeccagarbugli, nella speranza che questo possa perorare la sua causa.
L’avvocato inizialmente, quando ancora crede che Renzo sia un bravo, gli espone tutte le strategie giuridiche per risolvere il problema, ma quando infine scopre che egli è la vittima e non il malfattore, e pertanto non un bravo, lo caccia con sgarbate parole. Azzeccagarbugli ha una professionalità distorta, è un servo del potere, un servo dell’amico e protettore don Rodrigo, del quale è solito difendere i bravi.
In mano sua la legge è uno strumento ed è spregiudicato e abile nel manovrarla con artifizi verbali. L’avvocato è, in realtà, una figura piuttosto drammatica perché, attraverso lui, è rappresentata tutta la società corrotta del ‘600. Nel quinto capitolo, invece, viene illustrato un banchetto fra nobili che ha luogo a casa di don Rodrigo, durante il quale vengono discusse, dai convitati (il cugino Attilio, l’avvocato Azzeccagarbugli, il podestà di Lecco e due sconosciuti), le tematiche più svariate.
- Durante il convito viene affrontata una discussione riguardo se fosse giusto o meno bastonare un portatore di una sfida.
- Sull’argomento si dimostrano piuttosto contrari il potestà, sfavorevole, e il conte Attilio, favorevole, che proseguono discutendo riguardo le regole della cavalleria.
- La giustizia viene menzionata un’ultima volta nel sesto capitolo quando fra Cristoforo si reca a casa di don Rodrigo per chiedere un atto di giustizia, che viene prontamente rifiutato dal nobile, troppo orgoglioso, testardo e capriccioso.
In questi primi sei capitoli si può ben dedurre il pessimismo giuridico dell’autore e la sua scontentezza, delusione e critica riguardo la giustizia. Manzoni, infatti, non crede che la giustizia possa attuarsi tra gli uomini, mentre egli sogna uno stato di diritto, dove tutti, compresi gli stessi governatori, siano tenuti a rispettare le stesse leggi, una società basata sui principi della rivoluzione francese, dell’illuminismo e sui valori cristiani.
- A distanza di qualche secolo la giustizia nel mondo, o per lo meno in Italia, secondo me, non è poi molto cambiata.
- Esistono ancora giudici e avvocati corrotti da coloro che detengono maggiore potere e quindi più denaro, ed esistono ancora situazioni nelle quali, come nell’ambito della polizia, molte persone si proteggono vicendevolmente.
Credo che, comunque sia, certi fenomeni di corruzione o insufficienza della giustizia sia impossibile impedirli e, pertanto, condivido il pessimismo giuridico dell’autore, e anch’io continuo a pensare allo stato ideale come a uno stato di diritto, basato su principi di uguaglianza, fraternità e libertà.
Cosa pensa Renzo della legge come strumento di giustizia?
Il tema della giustizia è trattato a lungo da Manzoni. Renzo, tanto desideroso di giustizia e rivalsa, scopre suo malgrado che la giustizia in un mondo di opportunismo e popolato da gente interessata solamente al proprio tornaconto. Non solo: la giustizia si trova di rado, e ancor più di rado viene rispettata.
Quale idea di giustizia emerge nei Promessi Sposi?
La Giustizia nei Promessi Sposi I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni Le vicende di Renzo, dal matrimonio fallito ai tumulti di Milano, permettono a Manzoni di introdurre il tema della giustizia, Dopo la fuga da Milano, tutti i compaesani di Renzo erano stati interrogati dalla giustizia e la sua casa era stata perquisita.
Dopo la liberazione di Lucia, Agnese ed il cardinale Borromeo faticano a trovare notizie di Renzo, E quelle che trovano sono vaghe e contraddittorie. Saputo che la giustizia ricercava Renzo anche in territorio bergamasco, Bortolo aveva fatto trasferire il cugino in un paese limitrofo, facendolo assumere in una filatura sotto il falso nome di Antonio Rivolta,
La vicenda permette al narratore di ironizzare sui meccanismi della burocrazia e della giustizia, Fin dalle prime pagine del romanzo, Manzoni presenta una società violenta, dove le questioni non si discutono in termini di torto o di ragione, ma in termini di forza.
I principali responsabili di questa drammatica situazione sono, secondo l’Autore, i vari signori e signorotti locali, che, disponendo di un’elevata influenza sulle istituzioni giudiziarie e protetti da piccoli eserciti personali di bravi, eludono con facilità le gride (cioè le leggi) per far valere il proprio potere d’oppressione sulla popolazione,
Il clima d’ingiustizia e di violenza è quindi determinato dall’ancora forte potere feudale, personificato nella figura di don Rodrigo, e dalla totale inefficacia dell’ apparato giudiziario spagnolo, la cui organizzazione burocratica, lenta e macchinosa, non riesce a garantire ai cittadini la protezione necessaria.
- Così, l’unica “giustizia” rispettata è quella di don Rodrigo e di quelli che, come lui, dispongono della violenza come strumento di dominio.
- Ma non basta.
- Anche gli intellettuali e gli uomini di chiesa sono asserviti alla causa del potere e sono costretti ad accettarne le logiche di sfruttamento.
- Don Abbondio e l’Azzecca-garbugli, uomini comuni di per sé innocui e lontani dal sangue e dalla violenza, diventano le vittime e gli strumenti dell’oppressione,
Gli oppressori non si limitano a esercitare la violenza sui deboli, ma coinvolgono nelle loro logiche anche uomini prima estranei al terribile sistema dell’ingiustizia organizzata, Oltre agli intellettuali che diventano uno strumento nelle mani del potere, Manzoni si riferisce anche a un altro tipo di induzione alla violenza e all’odio: quella che i quotidiani episodi d’oppressione suscitano nella povera gente.
Dalla base della piramide sociale, si vedono salire infatti, oltre alle lacrime dei deboli sfruttati, anche le loro parole di rabbia, di odio, di indignazione, di vendetta, Infatti, dopo aver appreso che il suo matrimonio con Lucia è impedito dal volere di don Rodrigo, la prima reazione di Renzo è quella di progettare tremendi propositi di vendetta,
E quel giovane “pacifico e alieno dal sangue” che era si trasforma in un aspirante assassino. È il circolo vizioso dell’odio e della violenza (il forte opprime il debole che impara ad odiare a sua volta) che trasforma la storia umana (non solo quella del Seicento) in una immensa carneficina e in una grande valle di rabbia e oppressione.
Rabbia che sfocia poi nel Tumulto di Milano, al quale assiste lo stesso Renzo. L’ordinamento sociale e la vita economica del paese sono ridotti in tale miserevole stato per incapacità e cattiva volontà dei governatori e l’uomo onesto riconosce necessario un mutamento ed è pronto a compiere un atto di violenza per attuarlo.
Questo convincimento, frutto di un sordo rancore per tante ingiustizie e per tanti torti subiti, fa sì che Renzo prenda parte ai tumulti: vuole anch’egli operare per una società migliore e per un vivere fondato sulla giustizia. Alla fine solo la Provvidenza Divina promette al debole la redenzione e il riscatto dall’oppressione, a patto che sia lui il primo a interrompere il circolo di sangue, non rispondendo alla violenza con altra violenza.
Cosa porta Renzo all’avvocato?
Renzo e Lucia parlano con Agnese, la madre della giovane sposa, che suggerisce di rivolgersi ad un uomo di legge per trovare un ” bandolo.un parere, una parolina d’un uomo che abbia studiato “. Renzo accetta il consiglio e Agnese gli prepara i capponi da portare all’avvocato.
Giunto al borgo, domandò dell’abitazione del dottore ; gli fu indicata, e v’andò. All’entrare, si sentì preso da quella suggezione che i poverelli illetterati provano in vicinanza d’un signore e d’un dotto, e dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati ; ma diede un’occhiata ai capponi, e si rincorò,
Entrato in cucina, domandò alla serva, se si poteva parlare al signor dottore. Adocchiò essa le bestie, e, come avvezza a somiglianti doni, mise loro le mani addosso, quantunque Renzo andasse tirando indietro, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse ch’egli portava qualche cosa.
Capitò appunto mentre la donna diceva: “date qui, e andate innanzi.” Renzo fece un grande inchino : il dottore l’accolse umanamente, con un “venite, figliuolo,” e lo fece entrar con sé nello studio, Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti de’ dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi: nel mezzo, una tavola gremita d’allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride, con tre o quattro seggiole all’intorno, e da una parte un seggiolone a braccioli, con una spalliera alta e quadrata, terminata agli angoli da due ornamenti di legno, che s’alzavano a foggia di corna, coperta di vacchetta, con grosse borchie, alcune delle quali, cadute da gran tempo, lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s’accartocciava qua e là.
Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d’una toga ormai consunta, che gli aveva servito, molt’anni addietro, per perorare, ne’ giorni d’apparato, quando andava a Milano, per qualche causa d’importanza. Chiuse l’uscio, e fece animo al giovine, con queste parole: “figliuolo, ditemi il vostro caso.” “Vorrei dirle una parola in confidenza.” “Son qui,” rispose il dottore: “parlate.” E s’accomodò sul seggiolone.
- Renzo, ritto davanti alla tavola, con una mano nel cocuzzolo del cappello, che faceva girar con l’altra, ricominciò: “vorrei sapere da lei che ha studiato” “Ditemi il fatto come sta.” interruppe il dottore.
- Lei m’ha da scusare: noi altri poveri non sappiamo parlar bene.
- Vorrei dunque sapere” “Benedetta gente! siete tutti così: in vece di raccontar il fatto, volete interrogare, perché avete già i vostri disegni in testa.” ” Mi scusi, signor dottore.
Vorrei sapere se, a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è penale. ” — Ho capito, — disse tra sé il dottore, che in verità non aveva capito. — Ho capito. — E subito si fece serio, ma d’una serietà mista di compassione e di premura; strinse fortemente le labbra, facendone uscire un suono inarticolato che accennava un sentimento, espresso poi più chiaramente nelle sue prime parole.
” Caso serio, figliuolo; caso contemplato. Avete fatto bene a venir da me. È un caso chiaro, contemplato in cento gride, e appunto, in una dell’anno scorso, dell’attuale signor governatore. Ora vi fo vedere, e toccar con mano.” Così dicendo, s’alzò dal suo seggiolone, e cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio.
“Dov’è ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la dev’esser qui sicuro, perché è una grida d’importanza. Ah! ecco, ecco.” La prese, la spiegò, guardò alla data, e, fatto un viso ancor più serio, esclamò: “il 15 d’ottobre 1627! Sicuro; è dell’anno passato: grida fresca; son quelle che fanno più paura.
Sapete leggere, figliuolo?” “Un pochino, signor dottore.” “Bene, venitemi dietro con l’occhio, e vedrete.” E, tenendo la grida sciorinata in aria, cominciò a leggere, borbottando a precipizio in alcuni passi, e fermandosi distintamente, con grand’espressione, sopra alcuni altri, secondo il bisogno () Mentre il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro lentamente con l’occhio, cercando di cavar il costrutto chiaro, e di mirar proprio quelle sacrosante parole, che gli parevano dover esser il suo aiuto.
Il dottore, vedendo il nuovo cliente più attento che atterrito, si maravigliava. — Che sia matricolato costui, — pensava tra sé. “Ah! ah!” gli disse poi: — “vi siete però fatto tagliare il ciuffo. Avete avuto prudenza: però, volendo mettervi nelle mie mani, non faceva bisogno.
- Il caso è serio; ma voi non sapete quel che mi basti l’animo di fare, in un’occasione.” () “In verità, da povero figliuolo,” rispose Renzo, “io non ho mai portato ciuffo in vita mia.” “Non facciam niente,” rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente.
- Se non avete fede in me, non facciam niente.
Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore.
- Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò dalui, a fare un atto di dovere.
- Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi.
- Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato.
E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci.
Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente.
In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio; serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco.
- Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.” () “Diavolo!” esclamò il dottore, spalancando gli occhi.
- Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?” “Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è.
Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi,” e qui la voce di Renzo si commosse, “dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio.
Quel prepotente di don Rodrigo” “Eh via!” interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, “eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono.
Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.” I Promessi Sposi, Cap. III E il dottor Azzecca-garbugli invita Renzo ad andarsene riprendendo i capponi che aveva portato.
Come viene definito Renzo?
Personaggi dei Promessi Sposi – Renzo Tramaglino Renzo Tramaglino è il protagonista del romanzo ; Il suo nome completo era Lorenzo ma tutti lo chiamavano Renzo. Era orfano e aveva all’incirca 20 anni. Socialmente parlando era un operaio e filatore di seta, possedeva un poderetto, era economicamente più o meno stabile e perciò non aveva problemi di mancanza di cibo.
- Caratterialmente è un ragazzo pacifico e alieno dal sangue, schietto e nemico di insidia.
- E’ inoltre molto furbo e razionale.
- Renzo è positivo, virtuoso ed onesto.
- Ma allo stesso tempo ribelle ed impulsivo, quando viene ingannato o quando subisce ingiustizie e sopprusi.
- Questo suo lato caratteriale però viene calmato la maggior parte delle volte dalla figura di Lucia, la sua promessa sposa ed è per lui come una “luce”.
Generalmente indossa vestiti molto colorati e accessori ostentati. Viene fatta una descrizione più approfondita quando venne presentato durante il giorno del matrimonio: aveva un cappello pieno di piume di vario colore e aveva un pugnale del manico bello.
- Lucia Mondella Lucia Mondella è, suo malgrado, l’oggetto della contesa tra Renzo e don Rodrigo per gran parte della storia.
- Lucia viene descritta come una ragazza dalla bellezza modesta, senza avere nulla di eccezionale.
- Aveva i capelli lunghi neri sempre spartiti a metà.
- Il giorno del matrimonio erano raccolti in delle trecce trapassate da lunghi spilli d’argento.
Indossava una collana molto importante, portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate tramite dei nastri. Indossava una gonna di seta, con delle pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, anch’esse di seta.
- Anche lei, come Renzo, orfana del padre e vive perciò con sua madre Agnese.
- Anch’essa, appartiene alla classe del popolo, ma comunque anche lei vive in una situazione economica modesta ma decorosa.
- Lucia è molto diversa rispetto a Renzo; discreta e composta, è mite per natura, timida in modo esasperato, molto tenace e sicura.
Lucia ha un profondo sentimento religioso e il suo nome non a caso, evoca appunto la luce divina, la stessa “luce” che “guida” in un certo senso Renzo. All’apparenza Lucia può sembrare un personaggio poco propenso all’azione; in realtà, proprio nei momenti cruciali, ella rivela non solo sagacia.
Agnese (mamma di Lucia) Agnese è vedova e madre di Lucia e ha preso sotto la sua ala protettiva anche Renzo, che tratta ormai come un figlio. Agnese ha un istinto di protezione incredibile nei confronti sia di Lucia che di Renzo. Agnese è una donna pratica e assennata, anche se ama avere sempre ragione; è molto pettegola e ha sempre un’opinione su tutto.
Tanto impicciona ma un po’ goffa. Ma nonostante questi pochi difetti è una bellissima persona. Don Abbondio Don Abbondio è un curato. Manzoni lo descrive come un uomo dagli occhi grigi, dalla statura bassa e una costituzione. Ha all’incirca 60 anni. Non ci dice niente riguardante la sua provenienza.
Caratterialmente viene descritto la maggior parte delle volte come una persona pauroso. Schivo, introverso, timoroso, diffidente e a volte pusillanime. Moralmente debole e facilmente da sottomettere. Non è nobile e non è ricco. Durante la sua vita, spinto sempre dalla famiglia, decise di farsi sacerdote per avere un po’ la sicurezza “di essere protetto” e di appartenere comunque ad una socità medio alta: il clero.
Perciò prende i voti per vivere in una stabilità economica ma principalmente perché voleva scansare le difficoltà che avrebbe incontrato davanti a sè, non di certo perché stesse seguendo la sua vocazione. Perpetua Perpetua è la serva di don Abbondio, pettegola ma a lui molto affezionata.
- Per antonomasia oggi tutte le donne che aiutano nei lavori a casa un prete prendono il suo nome.
- Don Rodrigo Don Rodrigo è il signorotto locale, rappresentante di una nobiltà spagnola tiranna e corrotta, per nulla dedita alla cura delle persone ma solo alla cura di sé, al divertimento e al lusso.
- Don Rodrigo ha meno di 40 anni.
Viene descritto come una persona che suscita timore, con un gran ciuffo arricciato sul capo. Nonostante la sua fama di malvagio, è prepotente, spietato, ostinato ma a volte diventa pauroso davanti a personaggi più valorosi. A tratti insicuro di sè. Fra’ Cristoforo Fra’ Cristoforo è uno dei padri del convento dei Cappuccini che funge da punto di riferimento, anche spirituale, per Agnese e Lucia.
Padre cristoforo era una persona che è cresciuta in una vita da aristocratica. Era figlio di un mercante ed inoltre, ebbe avuto un’educazione molto alta. Entrò nei cappuccini per espiare l’omicidio di un arrogante signore, che in una rissa aveva ucciso il suo fedele difensore e servo Cristoforo. E così a 30 anni prese i voti.
Ed è proprio per questo che poi prese il nome di Cristoforo. Aveva più o meno 60 anni. Aveva il capo raso, barba bianca e lunga che gli copriva le guance, gli occhi incavati. Uomo coraggioso, battagliero, ricco d’animo, molto buono e molto interessato nel porre giustizia ai poveri che venivano minacciati dalle classi sociali più altre.
- Dotato di un fede in Dio incrollabile ma anche di uno spiccato senso pratico.
- Gertrude, la monaca di Monza Gertrude è la monaca di Monza, conosciuta anche come la Signora.
- Ha 25 anni, bella, occhi neri, capelli scuri e una pelle molto pallida.
- Manzoni scrive che la sua bellezza è una bellezza sfiorita, la fronte bianca ma corrugata, occhi superbi e timidi.
AL contrario delle altre monache ha i capelli lunghi. Durante il colloquio con Agnese e Lucia, dice la frase “State zitta voi, i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome dei loro figliuoli!” E ciò fa intendere che Geltrude non sopportava che i genitori decidano per i loro figli.
- Geltrude infatti aveva sempre sognato una vita più mondana e invece era stata costretta a prendere i voti; spinta dalla propria famiglia ma in particolar modo dal padre.
- Ciò successe perché nel 600 in genere per evitare di suddividere in maniera eccessiva il patrimonio delle famiglie nobiliari, ad ereditare tutto era soltanto il primogenito e perciò gli altri figli erano spesso indirizzati alla vita monacale.
Geltrude quindi è una monaca che vive nel rimpianto per una vita che non ha avuto. Per questo caratterialmente è a volte capricciosa, invidiosa e addirittura a tratti malvagia. Il suo comportamento è a volte è molto contraddittorio, misurato in presenza di Agnese ma intrepido con Lucia.
Qual è la frase pronunciata da Renzo?
latinòrum in Vocabolario latinorum latinòrum s.m. – Parola formata popolarmente con la desinenza – orum del genitivo plur. latino per indicare spreg. o scherz. il latino, quand’esso non è inteso o è adoperato da chi non vuole farsi intendere (e con questa accezione può indicare un discorso anche non latino ma costruito con parole intenzionalmente oscure, involute o troppo tecniche).
Cosa ha imparato Renzo?
Renzo: analisi del personaggio – Renzo rappresenta il reale, l’ azione, la natura ben disposta, la spontaneità, a differenza della sua amata Lucia che incarna il giudizio, l’ideale e la ragione. Manzoni utilizza funzionalmente Renzo per mostrarci l’ uomo che impara dalla vita e che si fa cosciente di se stesso e del mondo, grazie a tutti gli incontri, scontri, ostacoli ed errori.
- Sempre in divenire tra ignoranza e sapere, tra il bene e il male, tra errore e verità; sempre destinato ad imbattersi in qualcosa che non aveva previsto, e comunque sempre pronto a togliersi dall’impiccio e rimettersi in cammino armato di buona volontà verso altre avventure e scoperte.
- La dinamicità di Renzo è una caratteristica peculiare della sua figura insieme all’ iniziativa, il rischio, l’ impeto animoso, che si riflettono nell’azione anteposta alla riflessione, nel fatto anziché il giudizio.
Lo troviamo, senza maschera e sempre aperto, immerso in un mondo fatto di maschere, apparenze, distintivi di classe e di funzione, tonache e ciuffi. Collegato alla figura di Renzo il tema della giustizia, quando:
va dal dottor Azzeccargabugli con i capponiè coinvolto nel tumulto a Milanoal Lazzaretto a Milano in cerca di Lucia
La giustizia è l’ ideale dell’uomo reale che vive la dimensione orizzontale e sociale della vita, il rapporto con gli altri e la convivenza civile, in contrapposizione sempre a Lucia che rappresenta una dimensione verticale ed è associata al tema della Provvidenza,
- Abbiamo detto che Renzo è un personaggio molto attivo nel romanzo ed è il personaggio che si muove di più, compie un vero e proprio viaggio: fisico e morale.
- Interessante infatti leggere l’analisi del viaggio di ricerca come Bildungsroman,
- Questo suo percorso di formazione lo porta, alla fine del romanzo, proprio all’ultima pagina, a dirci tutte le cose che ha imparato: Ho imparato,” diceva, “a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho i mparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere.” E cent’altre cose.
Cap.38
Che cosa è la giustizia divina?
Vocabolario on line – giustizia giustìzia s.f. – 1.a. Virtù eminentemente sociale che consiste nella volontà di riconoscere e rispettare i diritti altrui attribuendo a ciascuno e si opera il bene, posseduta in sommo e perfetto grado da Dio di cui costituisce uno degli attributi: Giustizia mosse il mio alto Fattore (Dante); la g.
Qual è il messaggio finale dei Promessi Sposi?
CHE MESSAGGIO VUOL DARE MANZONI CON I PROMESSI SPOSI? – Al termine della storia Renzo proclama la sua volontà di non mettersi più nei tumulti, di non predicare in piazza, dopo che è entrato nel tranquillo paradiso domestico assicuratogli da Lucia. Ma al paradiso domestico si unisce anche una promozione sociale: Renzo si è trasformato in un piccolo imprenditore.
- Il popolo deve essere laborioso, altruista, onesto e portatore di purezza morale e fede cristiana.
- La “massa”, il popolo secondo Manzoni non è capace di farsi portatore di valori di benessere e giustizia: il popolo ha bisogno di una guida spirituale.
- Il modello di popolo è : innocente, buona, cristiana, laboriosissima. Respinge la violenza e attende umile e rassegnata l’aiuto del Signore.
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Scheda libro de I promessi Sposi: genesi del romanzo, i personaggi e la trama. Tutto quello che ti serve per fare la scheda libro del romanzo di Manzoni Capitolo 3 de I Promessi sposi di Alessandro Manzoni in 60 secondi: la spiegazione in un video semplice e chiaro.
Che cos’è la giustizia tema?
La giustizia – Giustizia deriva dal latino “iustum” che significa “giusto”. Per vivere insieme bisogna seguire la legge morale della giustizia, ma che cos’è la giustizia? Se la vogliamo definire con parole molto semplici, essa è la qualità che ci fa mostrare rispetto per i diritti degli altri, è quel valore che ci fa agire secondo bontà e verità.
Più precisamente la giustizia è la volontà di riconoscere il diritto di ognuno attraverso l’attribuzione di quello che gli spetta. In genere ci adeguiamo alla giustizia quando ci comportiamo in conformità alle regole, alle norme. Tuttavia, con la parola giustizia si intende pure il potere di tutelare i diritti su qualcuno, di ascoltare le sue richiesta accordandogli ciò che è giusto.
Praticare la giustizia significa comportarsi sempre in modo da tenere in considerazione le necessità degli altri. La giustizia inoltre regola i rapporti tra le persone che devono portare avanti le loro azioni conformandosi alla legge. Sulla base di quest’ultima coloro che fanno parte di una cosiddetta comunità umana devono regolare i loro comportamenti in base a ciò che dunque possono o non possono fare.
- Se un individuo fa qualcosa che va contro le regole o norme può essere soggetto a determinate sanzioni o pene, se invece le rispetta, si adegua al sistema che le ha regolate.
- Quindi gli individui devono rispettare le persone appartenenti a una determinata comunità comportandosi secondo legge in maniera rispettosa, onesta e corretta nei confronti dei loro simili.
La giustizia consiste dunque nel dare a qualcuno ciò che gli è dovuto. L’esatto contrario di questo concetto importante in ambito giuridico e sociale è invece il concetto di ingiustizia che consiste nel recare danno verso una persona che subisce quindi una cosa non giusta.
Cosa pensa l’avvocato Azzecca-garbugli di Renzo?
Azzeccagarbugli ne “I Promessi Sposi” di Manzoni: commento critico Il si apre con la confessione di Lucia del tentativo di seduzione da parte di don Rodrigo che, rifiutato, si vendica intromettendosi nell’imminente matrimonio con Renzo. Quest’ultimo, su consiglio di Agnese e placando provvisoriamente i propri impulsi di vendetta, si reca a Lecco dall’arcinoto Azzeccagarbugli, un avvocato – in realtà, un esponente emblematico dei legulei secenteschi e delle condizioni in cui versa la giustizia del secolo.
- Che dovrebbe difenderlo dal torto subito.
- Nasce invece un equivoco tra i due personaggi, e l’Azzeccagarbugli pensa che Renzo sia in realtà un bravo.
- Quando il giovane riesce a spiegare la situazione, l’avvocato, codardo, per non sfidare un potente e incorrere nelle sue ire si rifiuta di aiutarlo.
- Renzo, così, è costretto a tornare nel paese da Lucia e Agnese.
L’avvocato si connota, come del resto, come un personaggio che sceglie di stare dalla parte del potente, per evitare le conseguenze di una sua possibile opposizione. La videolezione analizza le tecniche descrittive adottate per presentarci questo personaggio mediocre e meschino, sviluppando parallelamente le osservazioni del narratore (e di Manzoni) sul valore delle leggi (o meglio, delle “grida”) e sulla funzione delle parole per cercare (o nascondere) la verità.
- Fa una scelta precisa di sostantivi, aggettivi e avverbi nella descrizione dello studio dell’avvocato, per sottolineare l’aspetto di disfacimento del luogo, degli oggetti della stanza e dell’avvocato stesso.
- Ti sei perso qualcosa? ecco il testo del video In questa presentazione parleremo del capitolo III de I Promessi Sposi e ci concentreremo in particolare sulla figura emblematica del dottor Azzeccagarbugli,
Questo capitolo è un capitolo di andate e venute che trovano però tutte il loro punto di riferimento, il loro centro in uno stesso luogo: la casa di Agnese e Lucia, Da qui infatti parte Renzo per andare a Lecco dal dottore Azzeccagarbugli, qui nel frattempo arriva Fra Galdino e qui torna Renzo da Lecco per riferire del colloquio con il dottore per poi tornarsene a casa propria.
Proprio in una di queste andate si colloca uno degli episodi rimasti più celebri di questo capitolo, ovvero quello dei capponi di Renzo : questi capponi non sono altro che dei pennuti che, su suggerimento di Agnese, Renzo porta al dottore Azzeccagarbugli come dono per ottenerne il favore; nella descrizione fattane dal narratore, questi quattro capponi sono diventati il simbolo di vittime impotenti in balia delle passioni di qualcuno più forte di loro e che, invece di aiutarsi nella sventura vicendevolmente, non fanno che beccarsi l’un l’altra, combattersi.
Questo capitolo si apre sul nome di Lucia che è un personaggio al vertice degli interessi tanto di Renzo, il suo promesso sposo, quanto di Agnese che è la madre di Lucia. Le relazioni tra questi tre personaggi sono immediatamente chiare proprio se si osserva l’avvio del capitolo III in cui, per la prima volta nel romanzo, i tre personaggi si ritrovano insieme in una stessa stanza.
All’avvio di questo capitolo Lucia entra in una stanza e interrompe uno scambio di notizie tra Renzo e Agnese, Nel momento in cui questi due personaggi si accorgono dell’arrivo di Lucia, si voltano in contemporanea a guardarla, aspettando da lei uno “schiarimento”, ovvero una spiegazione che desse un senso a tutti gli avvenimenti accaduti fino a quel momento.
Nello sguardo che Renzo e Agnese rivolgono a Lucia si mescolano sentimenti diversi: il dolore per gli ultimi avvenimenti successi, l’amore che entrambi le portano, ma anche un cruccio, un dispiacere perché la tanto amata Lucia ha nascosto a entrambi delle notizie molto importanti e con conseguenze notevoli come il rinvio del matrimonio.
Anche Lucia dunque, come l’altro personaggio (Don Abbondio) nei primi due capitoli del romanzo, è implicata in una sorta di dinamica del silenzio e di un segreto da rivelare, Non a caso anche Lucia, nel capitolo III, fa il gesto di mettersi il dito davanti alla bocca per chiedere silenzio, che era il gesto compiuto da Don Abbondio a chiusura del primo capitolo, dopo l’incontro con i bravi.
Tuttavia la gestione della dinamica del silenzio e della rivelazione dei segreti da parte di Lucia e di Don Abbondio è molto diversa: innanzitutto il silenzio di Lucia è un silenzio per motivi “giusti e puri”, come si dice nel capitolo II, ed è un silenzio che si scioglie in verità ben presto, una verità raccontata non solo a Renzo e Agnese, come abbiamo visto all’inizio del capitolo III, ma che sapremo raccontata ancora prima a Fra Cristoforo in un momento sacro, quello della confessione.
Il silenzio di Don Abbondio è invece un silenzio motivato dalla paura delle minacce dei bravi ed è un silenzio che prima di arrivare a sciogliersi in verità, si tramuta in una sorta di imbroglio di parole, attuata con quello che Renzo chiamerà il “latinorum” di Don Abbondio, quindi con parole di una lingua estranea che un personaggio illetterato come Renzo non è in grado di capire.
Questo atteggiamento di Don Abbondio sarà analogo a quello che avrà un altro personaggio di questo capitolo del romanzo, ovvero il dottor Azzeccargabugli : è un avvocato e quindi anche lui, come don Abbondio, è in grado di usare parole che un illetterato non può capire, parole delle leggi in questo caso, per rovesciare la realtà, per confondere le acque.
- Anche Azzeccagarbugli, come Don Abbondio, non appena sentirà del coinvolgimento di Don Rodrigo nella storia, si tirerà indietro e cercherà il silenzio, cercherà di troncare qualsiasi tipo di discorso, per un sentimento di paura mista a servilismo nei confronti dei potenti.
- Azzeccagarbugli è una figura tutto sommato marginale nell’economia del romanzo, ma certamente emblematica,
La prima cosa che possiamo osservare di questo personaggio è che viene citato nel romanzo sempre attraverso il suo soprannome, Azzeccagarbugli, e mai attraverso il nome; questo non per una reticenza dell’anonimo, ovviamente nella finzione del narratore come sarà invece il caso del personaggio dell’Innominato, ma per il fatto che di Azzeccagarbugli non si conosce più il nome vero, tutti lo chiamano solo con il suo soprannome.
Azzeccagarbugli è quindi un personaggio costruito sulla sua fama, sull’opinione che riesce a dare agli altri, su un’apparenza formale al di sotto della quale la verità è dubbia o comunque misconosciuta. Non a caso questo personaggio, prima di entrare in azione all’interno del romanzo, viene introdotto dal narratore attraverso due presentazioni indirette,
La prima è di Agnese e la seconda si realizza attraverso la descrizione dell’ambiente in cui Azzeccagarbugli si muove, ovvero il suo studio. Queste due presentazioni indirette sono accomunate dal fatto di essere organizzate secondo una logica binaria, cioè di alternare da una parte elementi che rimandano a una grandezza del personaggio e dall’altra elementi invece che sono indizio di una sua decadenza, di un suo degrado tanto fisico quanto morale,
La prima: Agnese nomina il personaggio di Azzeccagarbugli dopo aver ascoltato il racconto di Lucia a proposito della scommessa tra Don Rodrigo e il cugino Attilio, ma anche dopo aver ascoltato il racconto di Renzo a proposito del “latinorum” di Don Abbondio, quindi nel momento in cui ci si rende conto che i promessi sposi non possono aspettarsi nessun aiuto dal rappresentante del clero, dal curato.
A questo punto, dunque, con la saggezza popolare che gli deriva da un’età ormai matura, Agnese consiglia a Renzo e Lucida di rivolgersi a un rappresentante della legge, a un avvocato: il dottor Azzeccagarbugli. Nelle parole di Agnese, Azzeccagarbugli è descritto come un uomo colto, un uomo che ha studiato, un uomo che è in grado di trovare il bandolo anche nelle matasse più imbrogliate e insomma un uomo, come dice Agnese, che è una “cima d’uomo”.
Di contro a questi elementi apparentemente positivi, la descrizione che Agnese invece fa dei tratti somatici del dottore è una descrizione bassa, ben poco lusinghiera infatti il dottore è “alto, asciutto, pelato col naso rosso e una voglia di lampone sulla guancia”. Tra l’altro questo particolare del naso rosso ci fa pensare che il dottore possa essere dedito ai piaceri del bere, cosa che in effetti si confermerà più avanti nel capitolo V del romanzo, quando ritroveremo l’Azzeccagarbugli alla tavola di Don Rodrigo, con il naso più rubicondo del solito, a decantare la qualità dei vini che si bevono a quella tavola.
Lo studio del dottore Azzeccagarbugli viene descritto con la stessa logica della sua fame quindi alternando segni di grandezza e di decadenza, Lo studio è uno stanzone, appesi alle pareti ci sono i ritratti di dodici Cesari, un grande scaffale, una tavola piena di carte, un seggiolone decorato secondo il più puro gusto del seicento, ma di contro i libri sono vecchi e polverosi, le decorazioni della sedia sono ormai usurate e il dottore è vestito di una toga consunta che gli era servito negli anni addietro per dibattere cause di importanza, ma che ormai è sostanzialmente la sua veste da camera.
- Questo divario tra un’apparenza di grandezza e una realtà di degradazione, decadenza fisica e morale, lo ritroviamo poi nell’agire dell’Azzeccagarbugli che, essendo lui un avvocato, è un agire che si compie tramite le parole.
- Quando Renzo, dopo aver superato una sorta di timidezza, la timidezza dell’illetterato di fronte alla persona che ha studiato, riesce finalmente a dire il motivo per cui è lì, cioè “Vorrei sapere se, a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è penale”, il dottore risponde “Ho capito, ho capito”.
Il narratore ci avverte subito che la realtà è ben diversa e il dottore non ha capito assolutamente niente di quello che gli ha detto Renzo. Più avanti nel capitolo si capirà infatti che Azzeccagarbugli è un avvocato corrotto, asservito al potere ed è più abituato a difendere i colpevoli che gli innocenti,
Dà quasi per scontato che anche Renzo sia un malfattore, un bravo, e cerchi di scamparsela da una delle sue malefatte. Non pensa neanche lontanamente che Renzo sia una vittima giunta da lui a cercare giustizia. Azzeccagarbugli costruisce quindi tutta una serie di discorsi, di castelli in aria, che sono basati sull’interpretazione alla rovescia della realtà,
Per costruire questi discorsi, Azzeccagarbugli si serve tra l’altro di citazioni dalle “grida”, cioè dalle leggi dell’epoca, quelle stesse leggi che il lettore ha già incontrato nel primo capitolo del romanzo. In quel primo capitolo le grida erano tuttavia citate dal narratore e servivano, in primo luogo, come documenti autentici per attestare il vero su cui poggia il romanzo storico e, in secondo luogo, per dare il senso della giustizia dell’epoca, una giustizia che continua a produrre leggi per la sostanziale incapacità e impotenza di applicarle.
- In questo capitolo, invece, le grida sono messe in bocca a un personaggio, e non più al narratore, e diventano una sorta di strumento alla rovescia: invece che a difendere degli innocenti servono di fatto a difendere i colpevoli.
- Come dice lo stesso Azzeccagarbugli ” a saper bene maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente”.
Ci vuole una notevole capacità per piegare le leggi al loro fine contrario e in effetti Azzeccagarbugli è un grande artista della parola. Renzo, dice il narratore, rimanere incantato dall’arte di parolaio di Azzeccagarbugli ed è “come un materialone sulla piazza guardando al giocator di bussolotti”, ovvero il giocatore di prestigio ed è da notare che questa stessa metafora del giocatore di bussolotti tornerà più avanti nel romanzo a definire un altro personaggio molto negativo, ovvero il Principe Padre, il responsabile della monacazione forzata di Gertrude, la monaca di Monza.
- A un certo punto, però, Renzo si rende conto dell’equivoco in cui è caduto il dottore Azzeccagarbugli e cerca di interromperlo per spiegargli che, per dirla con le sue parole, l’ha intesa “proprio tutta al rovescio”.
- Qui è da notare la sapienza linguista del Manzoni nel costruire la lingua popolare sgrammaticata di Renzo, in contrapposizione a quella retoricamente ornata dell’Azzeccagarbugli.
Non appena Renzo riesce a raccontare dell’ingiustizia subita e a tirare in ballo Don Rodrigo, Azzeccagarbugli tronca qualsiasi tipo di discorso, fa proprio il gesto di lavarsi le mani di questo problema e mette letteralmente alla porta Renzo, ridandogli indietro anche il dono dei quattro capponi.
Al povero Renzo non rimane che tornarsene a casa, al paesello a riferire a Lucia e Agnese del triste esito della sua spedizione e gettare con non curanza su un tavolo i quattro capponi, le quattro vittime rifiutate da Azzeccagarbugli, così come del resto lui stesso e Lucia erano diventate vittime rifiutate sia dal rappresentante della legge, Azzeccagarbugli, sia ancora prima dal curato, Don Abbondio.
: Azzeccagarbugli ne “I Promessi Sposi” di Manzoni: commento critico
Chi chiede aiuto a Renzo?
Una donna sequestrata in casa chiede aiuto a Renzo, che le dà i due pani. I carri coi morti, condotti dai monatti. Renzo chiede indicazioni a un prete, che gli indica dov’è la casa di don Ferrante. Lo squallore della città desolata.
Perché Azzecca-garbugli non aiuta Renzo?
L’8 novembre del 1628, Renzo, Lucia ed Agnese si trovavano nella stanza terrena. Qui Lucia comincia allora a raccontare come pochi giorni prima, mentre stava rientrando dalla filanda con le sue compagne, essendo rimasta indietro, fu fermata da Don Rodrigo in compagnia di un altro signore, dove Don Rodrigo cercava di trattenere Lucia con chiacchiere; e quand’ella allungò il passo sentì Don Rodrigo ed il signore dire: scommettiamo.
Questo Lucia lo aveva raccontato solo a Padre Cristoforo durante una confessione, e non anche a sua madre per due validi motivi: il primo era di non spaventare sua madre, la quale non sarebbe stata capace di trovare nessun rimedio, il secondo motivo era invece quello di non mettere a rischio di viaggiare per molte bocche una storia che doveva essere gelosamente sepolta.
Allora, a questo punto, Agnese consiglia loro di andare a Lecco a cercare il dottore Azzeccagarbugli con quattro capponi (perché da quei signori non bisogna mai andar con mani vuote). Giunto al borgo, Renzo, si diresse verso la casa del Dottore, nella quale fu accolto dapprima dalla serva e dopo dal Dottore.
Il Dottore Azzeccagarbugli chiese poi a Renzo quale fosse il suo caso e quindi Renzo rispose con una domanda: “A minacciare un curato, perché non si celebri un matrimonio, c’è penale?”. A questa domanda il Dottore non aveva capito il ruolo di Renzo in questa faccenda. Ha qui inizio il tragicomico equivoco tra Renzo e l’Azzecca-garbugli che, credendo che il giovane si sia camuffato tagliandosi il ciuffo che contraddistingue i bravi, si complimenta con lui per la sua astuzia.
Renzo nega di essere un bravo, ma l’avvocato non gli crede e lo invita a fidarsi di lui, prospettando poi una linea di difesa. Scoperto l’equivoco, Azzecca-garbugli si infuria e rifiuta ogni aiuto, mettendolo infine alla porta, poiché colpevole di un crimine all’epoca gravissimo: essere vittima, e per di piů senza appoggi nobiliari.
A quel punto Azzeccagarbugli caccia di casa sua Renzo restituendoli i capponi. Intanto Lucia e Agnese si consultano nuovamente tra loro e decidono di chiedere aiuto anche a fra Cristoforo, In quel momento giunge fra Galdino, un umile frate laico, in cerca di noci per il convento di Pescarenico, lo stesso dove vive il padre Cristoforo.
Per eludere le domande del fraticello circa il mancato matrimonio si porta il discorso sulla carestia; Galdino racconta allora un aneddoto riguardante un miracolo avvenuto in Romagna. Lucia dona a fra Galdino una gran quantità di noci affinché egli, non dovendo continuare la questua, possa recarsi subito al convento ed esaudire la sua richiesta di inviare presso di loro fra Cristoforo.
Perché Renzo cambia identità?
Apprendiamo che Renzo ha dovuto lasciare il paese del cugino Bortolo e assumere per qualche tempo la falsa identità di Antonio Rivolta, tutto a causa delle ricerche (sia pure molto blande e destinate a restare senza esito) delle autorità della Repubblica sul suo conto: tutto nasce dalle pressioni politiche del
Qual è il problema di Renzo?
10° sequenza – i pensieri di Renzo- riflessiva – Renzo cammina verso la casa di Lucia senza aver deciso cosa fare, ma con la voglia di fare qualcosa di strano e terribile: nonostante il giovane sia pacifico e contrario ad ogni conflitto, il suo animo diviene violento se oppresso da ingiustizie.
Perché Renzo è un personaggio dinamico?
Renzo è dinamico in due sensi diversi: a livello fisico e pratico, poiché le circostanze che si trova a vivere lo spingono a macinare a piedi chilometro dopo chilometro; a livello mentale e di personalità, poiché dopo le tante esperienze e i guai che si trova a vivere si trasforma da giovane ingenuo a scaltro
Qual’è l’argomento del discorso che Renzo tiene alla folla?
A partire dalla narrazione – Sabato 11 novembre 1628, sera Il discorso di Renzo
Si sta facendo sera e la folla inizia a diradarsi. Si formano dei gruppi di persone qua e là che discutono di progetti per il giorno dopo. Renzo, credendo di essere ormai partecipe delle vicende fino in fondo, si intromette e arringa la folla con un discorso sul tema della giustizia, riponendo la sua fiducia nel cancelliere Ferrer. Egli viene scambiato così per uno dei capi della rivolta.
Renzo all’osteria
Renzo si affida quindi ad uno sconosciuto per cercare un’osteria. Egli è in realtà un poliziotto che lo sta spiando. Entrano ” all’osteria della luna piena “, dove continua i suoi sfoghi contro i tiranni e rifiuta di dire il suo nome. Il birro, tuttavia, riesce a far dire a Renzo le sue generalità per poterlo denunciare all’autorità giudiziaria, quindi se ne va. Renzo, così, non abituato agli stravizi, si ubriaca e tra discorsi sempre più appassionati e imbrogliati diventa lo zimbello della brigata,
Per quale motivo Renzo si ferma a parlare con perpetua?
G.B. Galizzi, Lucia “Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi molteplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola. F. Gonin, La notte di Don Abbondio Diversamente dal principe di Condé, che prima della battaglia di Rocroi trascorse una notte di placido sonno, il povero don Abbondio ne passa una piena di pensieri e tormenti, nell’incertezza di cosa fare il giorno dopo in cui è fissato il matrimonio di Renzo e Lucia,
Il curato esamina alcune possibilità e, scartata subito quella di celebrare le nozze, esclude anche di dire la verità a Renzo, come un’improbabile fuga dal paese, Alla fine decide di guadagnare tempo e di rimandare le nozze con qualche pretesto, confidando nel fatto che il 12 novembre inizierà il “tempo proibito” in cui non si possono celebrare matrimoni per due mesi, che saranno per il curato un periodo di respiro.
Don Abbondio si rende conto che Renzo è innamorato di Lucia, ma il curato è troppo timoroso di rimetterci la pelle, pensando alle minacce dei bravi. Verso il mattino riesce a prendere sonno, anche se è assediato da terribili incubi popolati dai bravi, da don Rodrigo, da fughe e inseguimenti.
Al mattino Renzo si reca a casa di don Abbondio, per prendere accordi circa l’ora in cui lui e Lucia dovranno trovarsi in chiesa. Egli è un giovane di vent’anni, rimasto orfano dall’adolescenza, che ora esercita la professione di filatore di seta: nonostante la stagnazione del mercato, Renzo trova tuttavia di che vivere grazie alla sua abilità e anche alla scarsità di operai, emigrati in gran numero negli Stati vicini in cerca di lavoro.
Il giovane possiede anche un piccolo podere che lavora quando non è impegnato come filatore, per cui la sua condizione economica si può dire discretamente agiata (specie perché egli amministra le sue sostanze con giudizio, da quando si è fidanzato con Lucia). Renzo e don Abbondio (ediz.1840) Renzo chiede a don Abbondio quando lui e Lucia dovranno trovarsi in chiesa, ma il curato finge di cadere dalle nuvole e di non sapere di cosa parla: il giovane gli ricorda delle nozze e don Abbondio ribatte che non può celebrarle, accampando prima motivi di salute e poi impedimenti burocratici che sarebbero di ostacolo al matrimonio.
Il curato spiega che avrebbe dovuto eseguire più accurate ricerche per stabilire che nulla vieta ai due promessi di sposarsi, mentre per il suo buon cuore ha affrettato le pratiche: accenna ai superiori cui deve rendere conto e, per confondere le idee a Renzo, inizia a parlare in latino citando il diritto canonico.
Il giovane, irritato, gli chiede di parlare in modo comprensibile e il curato ribadisce che si tratta di rimandare le nozze di qualche tempo, proponendo a Renzo una dilazione di quindici giorni. La reazione del giovane è alquanto stizzita, al che don Abbondio gli chiede di pazientare almeno una settimana: invita Renzo a dire alla gente in paese che è stato un suo sbaglio e a gettare la colpa di tutto su di lui, cosa che appaga il giovane solo in parte (Renzo non è molto convinto delle ragioni esposte dal curato). F. Gonin, Renzo e Perpetua Renzo si accinge a tornare di malavoglia a casa di Lucia, mentre ripensa al colloquio appena avuto col curato e si convince sempre di più che le ragioni accampate da don Abbondio suonano strane e incomprensibili. Sta quasi per tornare indietro a pretendere spiegazioni, quando vede Perpetua che sta per entrare nella porticina dell’orto, quindi la chiama e le si avvicina.
Il giovane inizia a parlare con la donna, cui chiede conto del comportamento del suo padrone, e Perpetua accenna subito ai segreti del curato che ella, afferma, non può sapere. Renzo capisce che c’è qualcosa sotto, perciò incalza la donna con altre domande, finché la domestica si lascia sfuggire che la colpa di tutto non è di don Abbondio ma di un prepotente, per cui Renzo capisce che non si tratta certamente dei superiori del curato.
Perpetua rifiuta di rispondere ad altre domande ed entra nell’orto, quindi Renzo finge di andarsene e poi, senza farsi vedere da lei, torna indietro ed entra nuovamente nella casa del curato, andando con fare alterato nel salotto dove don Abbondio è seduto. F. Gonin, Renzo minaccia il curato Renzo chiede subito a un esterrefatto don Abbondio chi è il prepotente che si oppone alle sue nozze: il curato impallidisce e con un balzo tenta di guadagnare la porta, ma il giovane lo precede e chiude l’uscio, mettendosi la chiave in tasca.
In seguito Renzo chiede nuovamente al curato il nome di chi lo ha minacciato, mettendo forse inavvertitamente la mano sul manico del pugnale, il che riempie di paura il sacerdote che, non senza esitazioni, fa finalmente il nome di don Rodrigo, La reazione di Renzo è furibonda, ma a questo punto don Abbondio descrive il terribile incontro coi bravi e sfoga la collera che ha in corpo, accusando anche il giovane di avergli esercitato una forma di violenza nella sua casa.
Renzo si scusa debolmente e riapre la porta, mentre il curato lo implora di mantenere il segreto per il bene di tutti: gli chiede di giurare, ma Renzo esce e se ne va senza promettere nulla, per cui don Abbondio chiama a gran voce Perpetua, La domestica accorre dall’orto con un cavolo sotto il braccio e segue un breve scambio di battute col padrone che l’accusa di aver parlato e lei che nega di averlo fatto; alla fine il curato si mette a letto con la febbre e ordina alla donna di sprangare l’uscio e di non aprire a nessuno, rispondendo dalla finestra a chi eventualmente chiedesse di lui.
Renzo torna infuriato a casa di Agnese e Lucia, sconvolto per l’accaduto e meditando vendetta contro il suo nemico don Rodrigo : egli è un giovane pacifico che non commetterebbe mai violenze, ma in questo momento fantastica di uccidere il signorotto e immagina di correre al suo palazzotto per afferrarlo per il collo.
Poi pensa che non potrebbe mai penetrare in quell’edificio, dove il signore è circondato dai suoi bravi, quindi progetta di tendergli un’imboscata e di sparargli col suo schioppo, per poi correre al confine e mettersi in salvo riparando in un altro Stato.
- Ma Lucia? Il pensiero della sua promessa sposa tronca questi pensieri sanguinosi e lo induce a pensare ai genitori, a Dio, alla Madonna, rallegrandosi di aver solo pensato un’azione così scellerata.
- Tuttavia il giovane è preoccupato all’idea di dover informare la ragazza dell’accaduto e sospetta che Lucia lo abbia tenuto all’oscuro di qualche cosa, il che lo riempie di dubbi e di sospetti.
Renzo passa davanti alla propria casa e raggiunge quella di Lucia, che si trova in fondo al paese ; entra nel cortile, cinto da un piccolo muro, sentendo un vociare femminile che proviene dalle stanze del primo piano e immagina che si tratti delle donne venute ad aiutare Lucia a prepararsi per le nozze. F. Gonin, Bettina e Lucia Una ragazzetta di nome Bettina si fa incontro a Renzo nel cortile, chiamandolo a gran voce, ma il giovane le impone di fare silenzio e le chiede di salire a chiamare Lucia, facendola venire al pian terreno senza che nessuno se ne accorga.
La fanciulla sale subito e trova Lucia che sta ultimando di vestirsi: la giovane ha i lunghi capelli bruni raccolti in trecce, con spilli d’argento infilati che formano una specie di aureola sopra la testa (secondo la moda delle contadine milanesi); al collo porta una collana di pietre rosse e bottoni dorati, indossa un busto di broccato a fiori, una gonnella corta di seta di scarsa qualità, calze rosse e due pianelle di seta.
Bettina le si accosta e le dice qualcosa all’orecchio, quindi Lucia si congeda dalle donne e scende al pian terreno: qui trova Renzo, che le dice subito cos’è successo e fa il nome di don Rodrigo, al che la giovane è sconvolta dal rossore. Renzo la accusa di essere a conoscenza della cosa, ma Lucia lo prega di pazientare e corre di sopra a licenziare le donne, mentre intanto la madre Agnese è scesa e si è unita a Renzo.
Lucia dice alle donne che il curato è ammalato e per questo il matrimonio è rimandato, quindi le sue compagne vanno via e si spargono per il paese, raccontando a tutti l’accaduto. Alcune vanno alla casa di don Abbondio per verificare se sia davvero malato e qui trovano Perpetua, la quale si affaccia dalla finestra e dice loro che il curato ha un febbrone.
Le donne, alquanto deluse per non poter spettegolare oltre, si ritirano nelle proprie case. F. Gonin, Ferrer si rivolge alla folla Spesso nei Promessi sposi i personaggi potenti usano la lingua come strumento per confondere le idee ai popolani, dissimulando le loro vere intenzioni o non facendo capire quanto in realtà stanno dicendo, sfruttando l’ignoranza delle persone più umili: ciò è parte di quella questione linguistica che sta tanto a cuore al Manzoni, in quanto le parole possono essere mezzo per diffondere le idee e preservare la libertà, ma anche per esercitare soprusi ai danni dei più deboli (ovviamente la cosa ha anche risvolti politici).
- Ne è un chiaro esempio don Abbondio, che durante il primo colloquio con Renzo nel cap.
- II si mette a parlare latino per metterlo in soggezione e non fargli capire cosa sta dicendo: la reazione del giovane è alquanto stizzita (“Si piglia gioco di me?.
- Che vuol ch’io faccia del suo latinorum ?”) e si comprende anche alla luce del fatto che Renzo è semi-analfabeta, in grado di leggere a fatica ma non di scrivere e ciò è un elemento di debolezza che lo espone al rischio di essere “messo nel sacco” da chi ha un maggior grado di istruzione.
Anche Ferrer, del resto, mescola abilmente italiano e spagnolo nel corso del salvataggio del vicario di Provvisione ( XIII ), per indurre il popolo a credere che lo sta portando in carcere, mentre è evidente che il funzionario è innocente e non subirà alcun processo (“Lo condurrò io in prigione: sarà gastigato.
si es culpable “), dunque la sua doppia parola è fonte di inganno e di disonestà verso i rivoltosi, sia pure per una buona causa. Manzoni sottolinea a più riprese che chi è istruito e possiede la parola scritta è titolare di un potere discrezionale verso chi è meno dotto, che spesso diventa occasione di esercitare soprusi e prepotenze, ed è quasi sempre Renzo a esemplificare questa condizione, come si vede nel colloquio con l’ Azzecca-garbugli ( III ) in cui l’avvocato gli legge con fare pomposo la grida che commina pene severe a chi minaccia un curato, mentre sarà poi evidente che queste parole non hanno molto valore e garantiscono l’impunità a chi gode di agganci politici e connivenze (il dottore dice che “a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente”).
Ciò causerà la profonda sfiducia di Renzo verso le gride e le leggi scritte in generale, come è evidente quando l’ oste della Luna Piena ( XIV ) gli chiede le sue generalità proprio ai sensi di una norma di legge, che impone al titolare di una locanda di registrare il nome di chi si ferma a dormire: il giovane rifiuta e in seguito afferma che “.tutti quelli che regolano il mondo, voglian fare entrar per tutto carta, penna e calamaio! Sempre la penna per aria! Grande smania che hanno que’ signori d’adoprar la penna!”, mentre poco dopo aggiunge che i signori praticano “un’altra malizia; che, quando vogliono imbrogliare un povero figliuolo, che non abbia studiato.
- E s’accorgono che comincia a capir l’imbroglio, taffete, buttan dentro nel discorso qualche parola in latino, per fargli perdere il filo, per confondergli la testa”.
- Il povero Renzo pagherà le conseguenze del suo essere quasi illetterato anche nel Bergamasco, quando non potrà diventare il factotum della fabbrica in cui lavora “per quella benedetta disgrazia di non saper tener la penna in mano”, dunque rappresenta il personaggio che a causa della sua umile condizione e della sua ignoranza è vittima di soprusi e si trova escluso da un possibile avanzamento sociale ed economico, cui potrebbe legittimamente aspirare grazie alle sue qualità di ottimo lavoratore.
Queste considerazioni spiegano perché Manzoni, dopo l’unità nazionale del 1861, pensava che la diffusione di una lingua unitaria fosse necessaria per cementare l’unità politica dello Stato da poco creatosi, come del resto affermò nella Relazione prodotta dalla Commissione parlamentare da lui presieduta che si occupò della questione: non a caso alla base di tutto era l’allargamento progressivo dell’istruzione e l’insegnamento dell’italiano come lingua “del popolo”, il che avrebbe consentito (senza per questo attribuire a Manzoni delle velleità liberal-democratiche che non ebbe mai) di trasformare la lingua in strumento di giustizia ed eguaglianza sociale, e non più un mezzo con cui i potenti impongono la loro volontà ai più deboli approfittando della loro scarsa cultura.
Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. Non far caso dell’intimazione ribalda, né delle minacce, e fare il matrimonio, era un partito, che non volle neppur mettere in deliberazione. Confidare a Renzo l’occorrente, e cercar con lui qualche mezzo. Dio liberi! – Non si lasci scappar parola. altrimenti. ehm! – aveva detto un di que’ bravi; e, al sentirsi rimbombar quell’ ehm! nella mente, don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, si pentiva anche dell’aver ciarlato con Perpetua. Fuggire? Dove? E poi! Quant’impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che rifiutava, il pover’uomo si rivoltava nel letto. Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a proposito, che mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze ; “e, se posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi due mesi di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose”. Ruminò pretesti da metter in campo; e, benché gli paressero un po’ leggieri, pur s’andava rassicurando col pensiero che la sua autorità gli avrebbe fatti parer di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur un giovanetto ignorante. “Vedremo, – diceva tra sé: – egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo”. Fermato così un poco l’animo a una deliberazione, poté finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate. Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all’idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istantaneo. Assaporato dolorosamente questo momento, don Abbondio ricapitolò subito i suoi disegni della notte, si confermò in essi, gli ordinò meglio, s’alzò, e stette aspettando Renzo con timore e, ad un tempo, con impazienza. Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v’andò, con la lieta furia d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell’annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino de’ calzoni, con una cert’aria di festa e nello stesso tempo di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti. L’accoglimento incerto e misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto. “Che abbia qualche pensiero per la testa”, argomentò Renzo tra sé; poi disse: – son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa. – Di che giorno volete parlare? – Come, di che giorno? non si ricorda che s’è fissato per oggi? – Oggi? – replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. – Oggi, oggi. abbiate pazienza, ma oggi non posso. – Oggi non può! Cos’è nato? – Prima di tutto, non mi sento bene, vedete. – Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca fatica. – E poi, e poi, e poi. – E poi che cosa? – E poi c’è degli imbrogli. – Degl’imbrogli? Che imbrogli ci può essere? – Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer quanti impicci nascono in queste materie, quanti conti s’ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccan de’ rimproveri, e peggio. – Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto cosa c’è. – Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimonio in regola? – Bisogna ben ch’io ne sappia qualche cosa, – disse Renzo, cominciando ad alterarsi, – poiché me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni addietro. Ma ora non s’è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò che s’aveva a fare? – Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma ora. basta, so quel che dico. Noi poveri curati siamo tra l’ancudine e il martello: voi impaziente; vi compatisco, povero giovane; e i superiori. basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne andiam di mezzo. – Ma mi spieghi una volta cos’è quest’altra formalità che s’ha a fare, come dice; e sarà subito fatta. – Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti ? – Che vuol ch’io sappia d’impedimenti? – Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis,. – cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita. – Si piglia gioco di me? – interruppe il giovine. – Che vuol ch’io faccia del suo latinorum ? – Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa. – Orsù!. – Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare. tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!. quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi. – Che discorsi son questi, signor mio? – proruppe Renzo, con un volto tra l’attonito e l’adirato. – Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi contento. – In somma. – In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l’ho fatta io. E, prima di conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti. – Ma via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto? – Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare. Il testo è chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet, – Le ho detto che non voglio latino. – Ma bisogna pur che vi spieghi. – Ma non le ha già fatte queste ricerche? – Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico. – Perché non le ha fatte a tempo? perché dirmi che tutto era finito? perché aspettare. – Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per servirvi più presto: ma. ma ora mi son venute. basta, so io. – E che vorrebbe ch’io facessi? – Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi l’eternità: abbiate pazienza. – Per quanto? “Siamo a buon porto”, pensò fra sé don Abbondio; e, con un fare più manieroso che mai, – via, – disse: – in quindici giorni cercherò,. procurerò. – Quindici giorni! oh questa sì ch’è nuova! S’è fatto tutto ciò che ha voluto lei; s’è fissato il giorno; il giorno arriva; e ora lei mi viene a dire che aspetti quindici giorni! Quindici. – riprese poi, con voce più alta e stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell’aria; e chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l’avesse interrotto, prendendogli l’altra mano, con un’amorevolezza timida e premurosa: – via, via, non v’alterate, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una settimana. – E a Lucia che devo dire? – Ch’è stato un mio sbaglio. – E i discorsi del mondo? – Dite pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una settimana. – E poi, non ci sarà più altri impedimenti? – Quando vi dico. – Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che, passata questa, non m’appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco -. E così detto, se n’andò, facendo a don Abbondio un inchino men profondo del solito, e dandogli un’occhiata più espressiva che riverente. Uscito poi, e camminando di mala voglia, per la prima volta, verso la casa della sua promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su quel colloquio; e sempre più lo trovava strano. L’accoglienza fredda e impicciata di don Abbondio, quel suo parlare stentato insieme e impaziente, que’ due occhi grigi che, mentre parlava, eran sempre andati scappando qua e là, come se avesser avuto paura d’incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi quasi nuovo del matrimonio così espressamente concertato, e sopra tutto quell’accennar sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro; tutte queste circostanze messe insieme facevan pensare a Renzo che ci fosse sotto un mistero diverso da quello che don Abbondio aveva voluto far credere. Stette il giovine in forse un momento di tornare indietro, per metterlo alle strette, e farlo parlar più chiaro; ma, alzando gli occhi, vide Perpetua che camminava dinanzi a lui, ed entrava in un orticello pochi passi distante dalla casa. Le diede una voce, mentre essa apriva l’uscio; studiò il passo, la raggiunse, la ritenne sulla soglia, e, col disegno di scovar qualche cosa di più positivo, si fermò ad attaccar discorso con essa. – Buon giorno, Perpetua: io speravo che oggi si sarebbe stati allegri insieme. – Ma! quel che Dio vuole, il mio povero Renzo. – Fatemi un piacere: quel benedett’uomo del signor curato m’ha impastocchiate certe ragioni che non ho potuto ben capire: spiegatemi voi meglio perché non può o non vuole maritarci oggi. – Oh! vi par egli ch’io sappia i segreti del mio padrone? “L’ho detto io, che c’era mistero sotto”, pensò Renzo; e, per tirarlo in luce, continuò: – via, Perpetua; siamo amici; ditemi quel che sapete, aiutate un povero figliuolo. – Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo. – È vero, – riprese questo, sempre più confermandosi ne’ suoi sospetti; e, cercando d’accostarsi più alla questione, – è vero, – soggiunse, – ma tocca ai preti a trattar male co’ poveri? – Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perché. non so niente; ma quello che vi posso assicurare è che il mio padrone non vuol far torto, né a voi né a nessuno; e lui non ci ha colpa. – Chi è dunque che ci ha colpa? – domandò Renzo, con un cert’atto trascurato, ma col cuor sospeso, e con l’orecchio all’erta. – Quando vi dico che non so niente. In difesa del mio padrone, posso parlare; perché mi fa male sentire che gli si dia carico di voler far dispiacere a qualcheduno. Pover’uomo! se pecca, è per troppa bontà. C’è bene a questo mondo de’ birboni, de’ prepotenti, degli uomini senza timor di Dio. “Prepotenti! birboni! – pensò Renzo: – questi non sono i superiori”. – Via, – disse poi, nascondendo a stento l’agitazione crescente, – via, ditemi chi è. – Ah! voi vorreste farmi parlare; e io non posso parlare, perché. non so niente: quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potreste darmi la corda, che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo perduto per tutt’e due -. Così dicendo, entrò in fretta nell’orto, e chiuse l’uscio. Renzo, rispostole con un saluto, tornò indietro pian piano, per non farla accorgere del cammino che prendeva; ma, quando fu fuor del tiro dell’orecchio della buona donna, allungò il passo; in un momento fu all’uscio di don Abbondio; entrò, andò diviato al salotto dove l’aveva lasciato, ve lo trovò, e corse verso lui, con un fare ardito, e con gli occhi stralunati. – Eh! eh! che novità è questa? – disse don Abbondio. – Chi è quel prepotente, – disse Renzo, con la voce d’un uomo ch’è risoluto d’ottenere una risposta precisa, – chi è quel prepotente che non vuol ch’io sposi Lucia? – Che? che? che? – balbettò il povero sorpreso, con un volto fatto in un istante bianco e floscio, come un cencio che esca del bucato. E, pur brontolando, spiccò un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi all’uscio. Ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, e stava all’erta, vi balzò prima di lui, girò la chiave, e se la mise in tasca. – Ah! ah! parlerà ora, signor curato? Tutti sanno i fatti miei, fuori di me. Voglio saperli, per bacco, anch’io. Come si chiama colui? – Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate all’anima vostra. – Penso che lo voglio saper subito, sul momento -. E, così dicendo, mise, forse senza avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva dal taschino. – Misericordia! – esclamò con voce fioca don Abbondio. – Lo voglio sapere. – Chi v’ha detto. – No, no; non più fandonie. Parli chiaro e subito. – Mi volete morto? – Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere. – Ma se parlo, son morto. Non m’ha da premere la mia vita? – Dunque parli. Quel “dunque” fu proferito con una tale energia, l’aspetto di Renzo divenne così minaccioso, che don Abbondio non poté più nemmen supporre la possibilità di disubbidire. – Mi promettete, mi giurate, – disse – di non parlarne con nessuno, di non dir mai.? – Le prometto che fo uno sproposito, se lei non mi dice subito subito il nome di colui. A quel nuovo scongiuro, don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di chi ha in bocca le tanaglie del cavadenti, proferì: – don. – Don? – ripeté Renzo, come per aiutare il paziente a buttar fuori il resto; e stava curvo, con l’orecchio chino sulla bocca di lui, con le braccia tese, e i pugni stretti all’indietro. – Don Rodrigo! – pronunziò in fretta il forzato, precipitando quelle poche sillabe, e strisciando le consonanti, parte per il turbamento, parte perché, rivolgendo pure quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra le due paure, pareva che volesse sottrarre e fare scomparir la parola, nel punto stesso ch’era costretto a metterla fuori. – Ah cane! – urlò Renzo. – E come ha fatto? Cosa le ha detto per.? – Come eh? come? – rispose, con voce quasi sdegnosa, don Abbondio, il quale, dopo un così gran sagrifizio, si sentiva in certo modo divenuto creditore. – Come eh? Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me, che non c’entro per nulla; che certamente non vi sarebber rimasti tanti grilli in capo -. E qui si fece a dipinger con colori terribili il brutto incontro; e, nel discorrere, accorgendosi sempre più d’una gran collera che aveva in corpo, e che fin allora era stata nascosta e involta nella paura, e vedendo nello stesso tempo che Renzo, tra la rabbia e la confusione, stava immobile, col capo basso, continuò allegramente: – avete fatta una bella azione! M’avete reso un bel servizio! Un tiro di questa sorte a un galantuomo, al vostro curato! in casa sua! in luogo sacro! Avete fatta una bella prodezza! Per cavarmi di bocca il mio malanno, il vostro malanno! ciò ch’io vi nascondevo per prudenza, per vostro bene! E ora che lo sapete? Vorrei vedere che mi faceste.! Per amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza. E quando, questa mattina, vi davo un buon parere. eh! subito nelle furie. Io avevo giudizio per me e per voi; ma come si fa? Aprite almeno; datemi la mia chiave. – Posso aver fallato, – rispose Renzo, con voce raddolcita verso don Abbondio, ma nella quale si sentiva il furore contro il nemico scoperto: – posso aver fallato; ma si metta la mano al petto, e pensi se nel mio caso. Così dicendo, s’era levata la chiave di tasca, e andava ad aprire. Don Abbondio gli andò dietro, e, mentre quegli girava la chiave nella toppa, se gli accostò, e, con volto serio e ansioso, alzandogli davanti agli occhi le tre prime dita della destra, come per aiutarlo anche lui dal canto suo, – giurate almeno. – gli disse. – Posso aver fallato; e mi scusi, – rispose Renzo, aprendo, e disponendosi ad uscire. – Giurate. – replicò don Abbondio, afferrandogli il braccio con la mano tremante. – Posso aver fallato, – ripeté Renzo, sprigionandosi da lui; e partì in furia, troncando così la questione, che, al pari d’una questione di letteratura o di filosofia o d’altro, avrebbe potuto durar dei secoli, giacché ognuna delle parti non faceva che replicare il suo proprio argomento. – Perpetua! Perpetua! – gridò don Abbondio, dopo avere invano richiamato il fuggitivo. Perpetua non risponde: don Abbondio non sapeva più in che mondo si fosse. È accaduto più d’una volta a personaggi di ben più alto affare che don Abbondio, di trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, che parve loro un ottimo ripiego mettersi a letto con la febbre. Questo ripiego, egli non lo dovette andare a cercare, perché gli si offerse da sé. La paura del giorno avanti, la veglia angosciosa della notte, la paura avuta in quel momento, l’ansietà dell’avvenire, fecero l’effetto. Affannato e balordo, si ripose sul suo seggiolone, cominciò a sentirsi qualche brivido nell’ossa, si guardava le unghie sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremolante e stizzosa: – Perpetua! – La venne finalmente, con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato. Risparmio al lettore i lamenti, le condoglianze, le accuse, le difese, i “voi sola potete aver parlato”, e i “non ho parlato”, tutti i pasticci in somma di quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di metter la stanga all’uscio, di non aprir più per nessuna cagione, e, se alcun bussasse, risponder dalla finestra che il curato era andato a letto con la febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo, ogni tre scalini, – son servito -; e si mise davvero a letto, dove lo lasceremo. Renzo intanto camminava a passi infuriati verso casa, senza aver determinato quel che dovesse fare, ma con una smania addosso di far qualcosa di strano e di terribile. I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovine pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemico d’ogni insidia; ma, in que’ momenti, il suo cuore non batteva che per l’omicidio, la sua mente non era occupata che a fantasticare un tradimento. Avrebbe voluto correre alla casa di don Rodrigo, afferrarlo per il collo, e. ma gli veniva in mente ch’era come una fortezza, guarnita di bravi al di dentro, e guardata al di fuori; che i soli amici e servitori ben conosciuti v’entravan liberamente, senza essere squadrati da capo a piedi; che un artigianello sconosciuto non vi potrebb’entrare senza un esame, e ch’egli sopra tutto. egli vi sarebbe forse troppo conosciuto. Si figurava allora di prendere il suo schioppo, d’appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai colui venisse a passar solo; e, internandosi, con feroce compiacenza, in quell’immaginazione, si figurava di sentire una pedata, quella pedata, d’alzar chetamente la testa; riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava una maledizione, e correva sulla strada del confine a mettersi in salvo. “E Lucia?” Appena questa parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente di Renzo, v’entrarono in folla. Si rammentò degli ultimi ricordi de’ suoi parenti, si rammentò di Dio, della Madonna e de’ santi, pensò alla consolazione che aveva tante volte provata di trovarsi senza delitti, all’orrore che aveva tante volte provato al racconto d’un omicidio; e si risvegliò da quel sogno di sangue, con ispavento, con rimorso, e insieme con una specie di gioia di non aver fatto altro che immaginare. Ma il pensiero di Lucia, quanti pensieri tirava seco! Tante speranze, tante promesse, un avvenire così vagheggiato, e così tenuto sicuro, e quel giorno così sospirato! E come, con che parole annunziarle una tal nuova? E poi, che partito prendere? Come farla sua, a dispetto della forza di quell’iniquo potente? E insieme a tutto questo, non un sospetto formato, ma un’ombra tormentosa gli passava per la mente. Quella soverchieria di don Rodrigo non poteva esser mossa che da una brutale passione per Lucia. E Lucia? Che avesse data a colui la più piccola occasione, la più leggiera lusinga, non era un pensiero che potesse fermarsi un momento nella testa di Renzo. Ma n’era informata? Poteva colui aver concepita quell’infame passione, senza che lei se n’avvedesse? Avrebbe spinte le cose tanto in là, prima d’averla tentata in qualche modo? E Lucia non ne aveva mai detta una parola a lui! al suo promesso! Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch’era nel mezzo del villaggio, e, attraversatolo, s’avviò a quella di Lucia, ch’era in fondo, anzi un po’ fuori. Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzìo che veniva da una stanza di sopra. S’immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava nel cortile, gli corse incontro gridando: – lo sposo! lo sposo! – Zitta, Bettina, zitta! – disse Renzo. – Vien qua; va’ su da Lucia, tirala in disparte, e dille all’orecchio. ma che nessun senta, né sospetti di nulla, ve’. dille che ho da parlarle, che l’aspetto nella stanza terrena, e che venga subito -. La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba d’avere una commission segreta da eseguire. Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch’esse, a ricami. Oltre a questo, ch’era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare. La piccola Bettina si cacciò nel crocchio, s’accostò a Lucia, le fece intendere accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all’orecchio. – Vo un momento, e torno, – disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, – cosa c’è? – disse, non senza un presentimento di terrore. – Lucia! – rispose Renzo, – per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo esser marito e moglie. – Che? – disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, – ah! – esclamò, arrossendo e tremando, – fino a questo segno! – Dunque voi sapevate.? – disse Renzo. – Pur troppo! – rispose Lucia; – ma a questo segno! – Che cosa sapevate? – Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia madre, e a licenziar le donne: bisogna che siam soli. Mentre ella partiva, Renzo sussurrò: – non m’avete mai detto niente. – Ah, Renzo! – rispose Lucia, rivolgendosi un momento, senza fermarsi. Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch’io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri? Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all’orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa a veder cosa c’era di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo, tornò alle donne radunate, e, accomodando l’aspetto e la voce, come poté meglio, disse: – il signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla -. Ciò detto, le salutò tutte in fretta, e scese di nuovo. Le donne sfilarono, e si sparsero a raccontar l’accaduto. Due o tre andaron fin all’uscio del curato, per verificar se era ammalato davvero. – Un febbrone, – rispose Perpetua dalla finestra; e la trista parola, riportata all’altre, troncò le congetture che già cominciavano a brulicar ne’ loro cervelli, e ad annunziarsi tronche e misteriose ne’ loro discorsi. | 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 85 90 95 100 105 110 115 120 125 130 135 140 145 150 155 160 165 170 175 180 185 190 195 200 205 210 215 220 225 230 235 240 245 250 255 260 265 270 275 280 |
Quale equivoco e alla base del dialogo tra Renzo è Azzecca-garbugli?
Il dialogo fra l’ Azzeccagarbugli e Renzo è interamente costruito su un equivoco, in cui la parola non è altro che forma vuota e ingannevole: quando il giovane popolano racconta la vicenda del matrimonio impedito, il dottore crede di aver di fronte un bravo responsabile dell ‘intimidazione del curato e lo rassicura: ‘
Perché Renzo si trova coinvolto nella rivolta?
La sera del 10 Novembre del 1628 Renzo, proveniente da Monza, giunge nel capoluogo lombardo presso porta Venezia, qui si volta indietro, vede all’orizzonte “il suo Resegone” e, assalito da sconcerto e dolore, si sente rimescolare il sangue nelle vene. Renzo è totalmente estraneo ai fatti eccezionali che la città va preparando e rimane ingenuamente sorpreso dai fatti anomali che si trova di fronte, ad esempio i gabellieri che lo lasciano passare senza fermarlo, le strisce bianche di farina per strada, i pani sparsi qua e là per terra e la gentilezza del viandante a cui chiede la strada per il convento di padre Bonaventura. Dopo aver saputo la direzione da prendere, Renzo, lungo la strada, non riesce a capire cosa stia succedendo: non si rende conto che è in corso una rivolta e che la gente sta dando l’assalto ai forni, e pensa invece di essere arrivato nel paese della cuccagna. Raccoglie tre pani da terra con la promessa che se avesse trovato il proprietario glieli avrebbe pagati. Da ciò si evince la spontanea onestà e la semplicità istintiva di Renzo che fa contrasto con l’immoralità di una famiglia che torna a casa carica di pane e farina dopo un saccheggio. Giunto al convento chiede di padre Bonaventura, ma gli viene risposto che è assente, così, spinto dalla curiosità e attratto dai tumulti cittadini, decide di andare a vedere cosa stia succedendo in città. Curioso ma ormai consapevole che quello è un giorno straordinario, si avvicina alla folla che stava assalendo il ” forno delle grucce”. Protestavano per il rincaro del pane deciso dalla giunta in seguito alle lamentele dei fornai per il prezzo politico del grano, alla metà del suo valore di mercato, stabilito da Ferrer per evitare che il costo continuasse a crescere a causa della grave carestia. Il giovane, nonostante pensi che la distruzione non possa portare all’abbondanza, si fa largo tra la folla fino a raggiungere l’ingresso del forno. Poco dopo si diffonde la voce che un altro forno è stato devastato e allora la calca si dirige da quella parte portando con sé l’ingenuo Renzo. Quando la calca vi giunge, il forno è sprangato è ben difeso, quindi si diffonde una “maledetta voce” che istiga ad assaltare la casa del” vicario di provvisione”, dove Renzo andrà di sua spontanea volontà. Mentre la folla si dà da fare per scardinare la porta della casa del vicario, Renzo per la prima volta espone ad alta voce il suo pensiero, opponendosi a quanti sono a favore di uno spargimento di sangue. Le parole del giovane provocano la furibonda reazione di un vecchio che lo accusa di essere una spia del vicario, e subito la voce si diffonde tra la folla. Renzo scopre a sue spese come sia incauto contraddire l’opinione che la maggior parte privilegia e riesce a cavarsela solo grazie all’arrivo di Ferrer. Il vecchio e apprezzato cancelliere, giunto per trarre in salvo il vicario, affascina l’ingenuo Renzo che lo vede come politico corretto e a favore del popolo; infatti gli si fa incontro e collabora con quanti cercano di fare largo per consentire alla carrozza di passare. In Renzo vediamo agire un sentimento di generosità, ma soprattutto di giustizia e l’ottimistica e ingenua volontà di contribuire ad un mondo rinnovato, fondato su nuove e giuste basi. Ferrer, rassicurata la folla, trae in salvo il vicario. Partita la carrozza, la folla si disperde e le persone si radunano in piccoli crocchi dove si incrociano i commenti sui fatti accaduti. Renzo si imbatte in un gruppo di persone che discutono sui fatti del giorno e non riesce a trattenersi dal dire anche il suo parere. Ne nasce un discorso che assomma gli eventi a cui ha assistito, alla sua personale vicenda di umile che ha subito un sopruso: il giovane parla di giustizia, sostenendo la necessità di leggi uguali per tutti. Le avventure del giorni, le azioni della folla, fanno insorgere nell’ingenuo Renzo l’idea che la giustizia possa realizzarsi molto semplicemente attraverso l’affermazione di una volontà comune concorde. Viene dunque messa in evidenza la semplicità del giovane che crede che l’esistenza di una buona legge basti ad assicurare il bene comune. Il discorso di Renzo attira l’attenzione di un” birro “che avvicina Renzo quando il giovane chiede indicazioni per un osteria offrendosi di accompagnarlo. Entrati nell’osteria, l’oste inquadra sia il” birro” che Renzo il quale, essendo in compagnia di un poliziotto non può che esserlo anche lui o essere una sua preda; l’oste lo capirà appena Renzo aprirà bocca in quanto dirà di aver preso del pane dalla strada. Queste parole vengono travisate dagli altri clienti dell’osteria che rispondono con una fragorosa risata. Il birro avverte l’oste di preparare una stanza per la notte per Renzo. L’oste dunque chiede le generalità, ma l’ingenuo montanaro si rifiuta di dirgliele cominciando un discorso sulla scrittura. Il” birro”, invece, riesce a farsele dire con l’astuzia e se ne va. Così l’oste porta Renzo, ormai ubriaco, nella sua stanza e prende i soldi che gli spettano. L’oste è costretto ad andare a denunciare i fatti della sera stessa imprecando contro l’ingenuità del giovane. Arrivato al palazzo di giustizia viene a sapere che il “notaio criminale” è già a conoscenza della storia, L’indomani mattina Renzo viene bruscamente svegliato dalle guardie armate e dal notaio venuti per arrestarlo. Renzo si riprende lentamente e comincia a rendersi conto delle leggerezza commesse la sera prima, ma, ancora una volta, si nota l’ingenuità del montanaro che chiede di parlare con Ferrer. Il notaio cerca di convincere Renzo con toni gentili di seguirlo, sperando di non incontrare durante il tragitto nuovi tumulti; sarà infatti la folla, poco dopo a consentire la fuga al giovane. Una volta che si è allontanato Renzo vorrebbe chiedere informazioni sulla via da percorrere per uscire da Milano, ma assume un atteggiamento accorto e prudente ben diverso da quello del giorno prima e cerca accuratamente a chi chiedere informazioni. Sceglie un passante che va di fretta che sembra non aver tempo da perdere per fare domande. Venuto a conoscenza della giusta direzione da seguire, s’incammina. La vista dei resti bruciati del forno assaltato, il pensiero del consiglio, che egli non aveva seguito, di sostare al convento, gli procurano un senso di smarrimento, Ricorrendo solo alle sue forze e all’astuzia che sta lentamente acquisendo, Renzo deve raggiungere Bergamo, dove abita il cugino Bartolo. Arrivato alla porta Orientale Renzo la trova presidiata, ma riesce ugualmente a passare con facilità. Lasciata prudentemente la strada maestra, percorre vie secondarie e intanto ripensa alle vicende che gli sono capitate. Intenzionato a dirigersi verso un paese a confine tra gli stati di Milano e Venezia, Renzo si sofferma presso una casupola ai margini di un piccolo borgo. Qui una vecchia gli offre un pasto e gli dà indicazioni per raggiungere il vicino paese di Gorgonzola. Arrivatovi entra in un’osteria dove, avendo fatto tesoro dell’esperienza negativa avuta a Milano, evita di mettersi in mostra, dà risposte vaghe ed evasive, fa intendere di andare di fretta per evitare inutili discussioni. Le chiacchiere oziose stanno per languire ed esaurirsi, quando arriva un nuovo ospite, un mercante, che le ravviva in modo assai particolare. I discorsi del mercante interessano anche il silenzioso Renzo, che vedrà rappresentate le sue avventure personali come in uno sgradevole specchio deformante. Le parole del mercante scatenano in Renzo un tumulto di pensieri e reazioni; così, quando il discorso si conclude, il giovane esce rapidamente dall’osteria. Imbocca dunque una strada stretta, e la notte e la solitudine sembrano farsi più fitte via via che avanza. Mentre Renzo nel buio parla tra se, l’ambiente diventa sempre più selvatico; le presenze umane sono inesistenti; solo una vegetazione incolta gli fa compagnia, ma è una compagnia a momenti paurosa per il giovane. Lo smarrimento semplice e intenso del montanaro in quella notte fredda e in quella solitudine assoluta, è accompagnato dalla stanchezza, dalla frustrazione, dall’ansia, dalla paura che gli danno l’impulso di fuggire di corsa. Soverchiato dal suo carico di afflizione e stanchezza, deve fare ricorso al fondo più tenace della sua personalità. Durante il suo sostare a raccogliere le poche energie rimaste, in quel silenzio, sente la voce sommessa, ma confortante dell’Adda che dà coraggio al giovane il quale ritrova se stesso e il suo animo si rasserena. Insieme all’Adda gli appare in distanza la città di Bergamo. Dopo alcuni primi momenti di eccitazione, egli mostra lucidità e prudenza nel non farsi travolgere dall’entusiasmo e a “sangue freddo”, pensa saggiamente a come trascorrere quel che resta della notte, frenando la voglia di essere già al di là del fiume e pensando al modo migliore per riposare un poco. Trova un rozzo abituro dove si distende, si copre con la paglia e prega. Prima di addormentarsi si riaffacciano i problemi; è difficile, infatti, per il giovane trovare qualcosa cui aggrapparsi in un momento tanto disperato. Ma il ricordo dei propri valori affettivi lo consolano. Passata la difficile notte, le avvisaglie del nuovo giorno presentano un Renzo determinato e concentrato sui prossimi obiettivi. Il giovane passa i campi e attraversa di nuovo il bosco, giunto sulla riva dell’Adda vede la barchetta di un pescatore e gli fa cenno che approdi. Passato il fiume, si riaffacciano pensieri odiosi, ma anche nuovi, si fanno finalmente incontri più sereni e tranquilli. Dalla riva opposta, Renzo si volge indietro a guardare Milano e l’ apostrofa con un’espressione di congedo: >. Il superamento del fiume rappresenta per il personaggio il superamento di una soglia di maturità: Renzo, da ingenuo montanaro, diventa un uomo prudente e riflessivo. Domande da interrogazione Cosa succede a Renzo a Milano? Renzo arriva a Milano la sera del 10 novembre 1628 presso porta Venezia. Si volta verso il suo “Resegone” ignaro degli eventi che stanno accadendo in città. Viene coinvolto nei tumulti per il pane e dopo essere stato coinvolto in vicende spiacevoli cerca di scappare da Milano. Perché Renzo va a Milano Promessi Sposi? Renzo va a Milano per consegnare una lettera di Fra Cristoforo a Padre Bonaventura che si trova nel convento dei Cappuccini di Milano. Come fa Renzo a entrare a Milano? Renzo riesce ad entrare a Milano riuscendo a passare per Porta Nuova. Dove è diretto Renzo a Milano? Renzo deve andare presso il convento dei Cappuccini di Milano per consegnare la lettera di Fra Cristoforo a Padre Bonaventura. Dove va Renzo a Milano? Renzo va in direzione del Duomo, si reca al Convento dei Cappuccini, ma non trova Padre Bonaventura. Dopo viene coinvolto a sua insaputa nei tumulti per il pane, in seguito si reca nell’Osteria della Luna piena e successivamente scappa in direzione di Bergamo.
Quali errori commette Renzo?
Gli errori di Renzo Tramaglino
Renzo stesso elenca nell’ultimo capitolo del romanzo, il trentottesimo, gli errori da lui commessi: Ho imparato, – diceva, – a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere.
a non mettermi ne’ tumulti – si riferisce al giorno del suo arrivo a Milano durante i tumulti di San Martino. La folla è per lui come un vortice al quale non riesce a resistere: viene subito risuchiato al suo interno e segue in prima persona tutti gli avvenimenti della giornata.
- Ho imparato a non predicare in piazza, ho imparato a guardare con chi parlo, ho imparato a non alzar troppo il gomito – si riferisce agli avvenimenti che gli fecero guadagnare una condanna a morte.
- Terminati i primi tutmulti di San Martino, Renzo si unisce ad un gruppo di persone che discute i fatti della giornata, tiene egli stesso un piccolo comizio ed attira così l’attenzione di un informatore della polizia, il fantomatico spadaio Ambrogio Fusella.
Accompagnato poi da quest’ultimo in una osteria, confesserà il proprio nome e cognome vinto sia dall’astuzia dell’uomo che del vino bevuto. ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda – si riferisce alla visita alla casa di donna Prassede e Don Ferrante a Milano.
Un donna dall’interno dell’abitazione comunica in malo modo a Renzo che Lucia è stata trasportata al Lazzaretto, il ragazzo sfoga la propria ira sul martello della porta e per questo su strano atteggiamento viene additato come untore da una donna presente in piazza. ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere – si riferisce al giorno in cui era andato alla ricerca di Lucia all’interno del settore del Lazzaretto dedicato alle donne.
L’accesso all’area è proibito agli uomini e Renzo, visto in terra un campanello del tipo usato dai monatti (coloro che si occupavano dei cadaveri), decide di metterselo al piede e quindi di fingersi uno di loro per passare inosservato. Sarà proprio il campanello, al contrario, ad attirare l’attenzione di un commissario.
Qual è il ruolo di Renzo nei Promessi Sposi?
G. Mantegazza, Renzo È il protagonista maschile della vicenda, il promesso sposo di Lucia le cui nozze vengono mandate a monte da don Rodrigo : è descritto come un giovane di circa vent’anni, orfano di entrambi i genitori dall’adolescenza e il cui nome completo è Lorenzo.
Esercita la professione di filatore di seta ed è un artigiano assai abile, cosicché il lavoro non gli manca nonostante le difficoltà del mercato (ciò anche grazie alla penuria di operai, emigrati in gran numero nel Veneto); possiede un piccolo podere che sfrutta e lavora egli stesso quando il filatoio è inattivo, per cui si trova in una condizione economica agiata pur non essendo ricco.
Compare per la prima volta nel cap. II, quando si reca dal curato la mattina del matrimonio per concertare le nozze: è presentato subito come un giovane onesto e di buona indole, ma piuttosto facile alla collera e impulsivo, con un’aria “di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti”; infatti porta sempre con sé un pugnale e se ne servirà indirettamente per minacciare don Abbondio e costringerlo a rivelare la verità sul conto di don Rodrigo.
In seguito progetterà addirittura di assassinare il signorotto, ma abbandonerà subito questi pensieri delittuosi al pensiero di Lucia e dei principi religiosi (anche nel cap. XIII parlerà in difesa del vicario di provvisione, che i rivoltosi vogliono linciare). Il suo carattere irascibile e irruento gli causerà spesso dei guai, specie durante la sommossa a Milano il giorno di S.
Martino quando, per ingenuità e leggerezza, verrà scambiato per uno dei capi della rivolta e sfuggirà per miracolo all’arresto; dimostra comunque in più di una circostanza un notevole coraggio, sia durante i disordini citati della sommossa (in cui si adopera per aiutare Ferrer a condurre via il vicario), sia quando torna nel ducato di Milano nonostante la cattura, al tempo della peste (a Milano si introduce nel lazzaretto e in seguito si fingerà un monatto, cosa che gli consentirà di trovare Lucia).
È semi-analfabeta, in quanto sa leggere con difficoltà ma è incapace di scrivere, cosa che gli impedirà di diventare factotum alla fabbrica del Bergamasco dove trova lavoro dopo la sua fuga dal Milanese (anche per questo conserva una certa diffidenza per la parola scritta, specie per le gride che non gli hanno minimamente assicurato la giustizia ).
Rispetto a Lucia si può considerare un personaggio dinamico, in quanto le vicende del romanzo costituiscono per lui un percorso di “formazione” al termine del quale sarà più saggio e maturo (è lui stesso a trarre questa morale nelle pagine conclusive dell’opera).
Si reca da don Abbondio la mattina del matrimonio, ma il curato lo convince a rimandare le nozze. Estorce da Perpetua alcune ammissioni, quindi costringe il curato a fare il nome di don Rodrigo, Mentre torna a casa di Lucia progetta di uccidere il signorotto, ma poi rinuncia ai propositi delittuosi. Rivela tutto a Lucia chiedendole spiegazioni sull’accaduto. Dopo il racconto di Lucia è colto dall’ira e minaccia di vendicarsi di don Rodrigo, Segue il consiglio di Agnese e si reca a Lecco, per rivolgersi all’avvocato Azzecca-garbugli, ma questi cade in un equivoco e lo scambia per un bravo ; dopo lo scioglimento dell’equivoco il giovane viene cacciato in malo modo. Torna a casa di Lucia e riferisce l’esito infelice del colloquio, venendo accusato da Agnese di non essersi saputo spiegare. Torna a casa propria sconsolato. Giunge a casa di Agnese e Lucia, dove è già arrivato padre Cristoforo e parla con lui. Manifesta il desiderio di farsi giustizia da sé, per cui il frate lo rimprovera e lo esorta a confidare nell’aiuto di Dio. Promette di non fare pazzie, tranquillizzando Lucia. Accoglie con entusiasmo la proposta di Agnese riguardo al “matrimonio a sorpresa” e poi si reca a casa dell’amico Tonio, invitandolo all’osteria. Propone a Tonio di fargli da testimone, quindi l’amico accetta e propone a sua volta il fratello Gervaso come secondo testimone. Torna a casa di Lucia e Agnese, iniziando a discutere con la ragazza che è restia a ricorrere al sotterfugio. Dopo la visita di padre Cristoforo minaccia di uccidere don Rodrigo, finché Lucia, spaventata, accetta di partecipare al “matrimonio a sorpresa” (il giovane forse accentua ad arte la sua collera). Il giorno dopo rifiuta di andare dal frate come lui gli aveva chiesto e a sera va con Tonio e Gervaso all’osteria, dove ci sono i bravi inviati dal Griso, Raggiunge le due donne e tutti insieme vanno a casa di don Abbondio, Si introduce insieme a Lucia, Tonio e Gervaso in casa di don Abbondio e poi tenta, senza successo, il “matrimonio a sorpresa” (il giovane riesce a pronunciare la formula di rito, ma non così Lucia). In seguito cerca invano di calmare il curato, quindi si allontana dalla casa insieme a Lucia e Agnese, Dopo l’arrivo di Menico si reca con le due donne al convento di Pescarenico, dove padre Cristoforo li informa dei piani di don Rodrigo e suggerisce loro di lasciare il paese, Sale con le due donne sulla barca che li porta sull’altra sponda del lago. Giunge a Monza insieme ad Agnese e Lucia, quindi si separa da loro e riparte alla volta di Milano, Arriva a Milano il giorno di S. Martino, quando è iniziato il tumulto per il pane. Entra in città e trova per terra farina e pagnotte, raccogliendone alcune. Giunge al convento di Porta Orientale e chiede del padre Bonaventura cui lo ha indirizzato padre Cristoforo, ma gli viene risposto che è assente ed è invitato ad attenderlo in chiesa. Il giovane decide di andare a vedere più da vicino la sommossa. Assiste all’assalto al forno delle Grucce, senza tuttavia prendere parte alla sommossa, Fa osservazioni circa l’inutilità di distruggere i forni. Segue i rivoltosi quando vanno alla casa del vicario di Provvisione. Assiste all’assalto alla casa del vicario di Provvisione, quindi manifesta orrore al proposito della folla di uccidere l’uomo. Quando arriva Ferrer in carrozza, si adopera per far scansare la folla e aiutarlo a raggiungere la casa. Assiste al salvataggio del vicario, convinto che Ferrer gli sia debitore. Arringa la folla in tumulto con un improvvisato discorso, attirando l’attenzione di un poliziotto travestito. Costui si offre di condurlo in un’osteria, col reale proposito di portarlo in prigione, ma poi Renzo entra nell’osteria della Luna Piena, Qui il giovane si ubriaca e finisce per rivelare il proprio nome al poliziotto, che poi se ne va. Perde totalmente la lucidità e diventa lo zimbello degli avventori della locanda. Viene portato dall’ oste a dormire, ormai completamente ubriaco. Il mattino dopo è svegliato dal notaio criminale, venuto ad arrestarlo con due birri: portato in strada, attira l’attenzione della folla che lo libera. Si dà alla fuga, approfittando della confusione. Si allontana dalla folla, riuscendo a lasciare Milano passando per Porta Orientale. Inizia a camminare verso l’ Adda, intenzionato a passare nel Bergamasco, Si ferma in un’osteria, dove chiede indicazioni a una vecchia, Si rimette in marcia e giunge all’osteria di Gorgonzola, dove un mercante di Milano racconta del tumulto e parla della sua fuga. Esce dall’osteria e riprende il cammino. Ripensa alle insulse chiacchiere del mercante all’osteria e, in un soliloquio, difende le sue ragioni. Si addentra nella boscaglia in cerca dell’ Adda, finendo per smarrirsi e cadendo preda di angosce interiori. Trova il fiume e decide di pernottare in un capanno abbandonato. Il mattino dopo attraversa il fiume sulla barca di un pescatore, poi si avvia verso il paese del cugino Bortolo, Raggiunge il cugino, che lo acco glie calorosamente e gli promette aiuto e lavoro. Viene avvisato da Bortolo che la giustizia della Repubblica Veneta è sulle sue tracce, così è costretto a trasferirsi in un filatoio vicino dove viene assunto da un conoscente del cugino, anch’egli di origine milanese. Assume la falsa identità di Antonio Rivolta e, anche per questo, non può essere rintracciato da Agnese, Riesce finalmente a dare sue notizie ad Agnese, informandola della sua fuga e del fatto che deve restare nascosto. Riceve a sua volta una risposta da Agnese, che gli manda cinquanta scudi d’oro (la metà della somma ricevuta dall’ innominato ) e lo informa del voto di Lucia : va su tutte le furie e risponde che non intende rassegnarsi né toccare il denaro, certo del fatto che il voto sia nullo. La corrispondenza prosegue in modo stentato. Viene detto attraverso un flashback del suo ritorno al filatoio di Bortolo, dopo l’inizio delle ostilità tra la Spagna e Venezia. Medita di arruolarsi per la questione del voto, ma il cugino lo dissuade. Si ammala di peste e guarisce, quindi decide di tornare nel Milanese per avere notizie di Lucia, Torna al suo paese e qui incontra Tonio, che non lo riconosce (l’uomo, ammalato di peste, ha la mente annebbiata). Incontra don Abbondio, che lo informa del fatto che Lucia è a Milano, Agnese è da suoi parenti a Pasturo, don Rodrigo ha lasciato il suo palazzo, Il curato cerca di convincerlo ad andarsene in quanto ricercato dalla legge, ma il giovane non gli dà retta. Il curato gli elenca le molte vittime della peste, tra cui Perpetua, Va nella sua vigna e la trova in stato di penoso abbandono, come la sua casa. Viene ospitato per la notte da un vecchio amico d’infanzia, che gli dà preziose indicazioni sul nome del casato di don Ferrante, Il giorno dopo riparte alla volta di Milano, dove giunge il mattino dopo presso Porta Nuova. Entra a Milano e si imbatte in un passante, che lo scambia per un untore. Dona i pani a una donna sequestrata in casa. Attraversa la città appestata e assiste allo squallore e alla miseria dell’epidemia. Assiste al commovente episodio della madre di Cecilia, Raggiunge la casa di don Ferrante e apprende che Lucia, ammalata di peste, è al lazzaretto, Viene nuovamente scambiato per un untore e rischia il linciaggio della folla, da cui si salva saltando su un carro di cadaveri dove è accolto dai monatti, Questi lo portano al lazzaretto, dove il giovane si allontana e si prepara a entrare nel recinto, dopo aver visto le miserie che già si raccolgono all’esterno. Entra nel lazzaretto e inizia a cercare Lucia, Vede il recinto con i bambini orfani allattati da balie e capre. Ritrova padre Cristoforo e gli racconta cosa è successo a lui e a Lucia. Il frate gli suggerisce di cercare Lucia nella processione dei guariti e gli spiega come entrare nel quartiere delle donne. Il giovane manifesta propositi di vendetta verso don Rodrigo e il frate lo rimprovera duramente, poi gli mostra il signorotto agonizzante in una capanna. Prega per la salvezza del suo persecutore, poi si separa dal frate e va verso la cappella. Assiste alla predica di padre Felice e alla processione dei guariti, senza trovare Lucia, Prega inginocchiato nella cappella, poi si introduce nel quartiere delle donne. Trova a terra il campanello di un monatto e se lo attacca al piede, per avere libero accesso. Riceve ordini da un commissario e pensa di toglierselo, ma nel farlo sente la voce di Lucia proveniente da una capanna. Entra e trova la giovane in compagnia della mercantessa, Ha con la giovane un dialogo drammatico in cui cerca invano di farla desistere dal proposito del voto. La lascia e torna da padre Cristoforo, cui spiega tutto. Accompagna il frate da Lucia e assiste mentre il religioso scioglie il voto. Riceve la benedizione del cappuccino e il “pane del perdono” in dono da lui. Si congeda da padre Cristoforo e lascia il lazzaretto, Lascia il lazzaretto e torna al suo paese sotto un violento temporale. Viene nuovamente ospitato dall’ amico e va poi da Agnese a Pasturo, informandola di ogni cosa. Si reca ancora nel Bergamasco da Bortolo, avendo ormai deciso di trasferirsi lì con Lucia, Riporta Agnese a casa sua al paese e aspetta insieme a lei il ritorno di Lucia. Accoglie Lucia al suo ritorno in paese con la mercantessa, Chiede a don Abbondio di celebrare il matrimonio, ma il curato accampa nuovi pretesti. Porta al curato la notizia della morte di don Rodrigo e dell’arrivo in paese del marchese suo erede. Sposa Lucia e poi si reca al palazzotto del marchese, dove gli vende le sue terre a un alto prezzo. Si trasferisce con Lucia e Agnese nel Bergamasco, stabilendosi nel paese di Bortolo : qui non si trova bene, per via di certe critiche che i compaesani riservano alla modesta bellezza della sposa. Acquista un filatoio in società con Bortolo e si trasferisce lì con la famiglia. Gli affari vanno bene e lui e Lucia hanno molti figli (alla primogenita viene dato nome Maria). Vuole che i figli imparino a leggere e a scrivere. Elabora insieme a Lucia “il sugo di tutta la storia”. |
Che differenza c’è tra legge e giustizia?
Qual è la differenza tra legge e giustizia? – Quora. Una legge è prodotta da un legislatore come è successo per le leggi razziali fasciste. La giustizia è invece un concetto che si suppone universale e immutabile nelle persone che hanno conservato integrità morale.
Che cosa propone Lucia a Renzo per risolvere il problema?
Lucia propone addirittura di lasciare il paese, ma Renzo le ricorda che non sono sposati e ciò creerebbe infiniti problemi ; quanto a don Abbondio, non c’è da sperare che celebri il matrimonio o li agevoli in questa decisione.
Chi ha detto La giustizia non è di questo mondo?
Papa Pio VII: Ricordati figliolo che la Giustizia non è di questo mondo, ma dell’altro. Marchese del Grillo: Eh, lo so Santità. Giustizia dell’altro mondo
Che cosa chiede Renzo riguardo a Ferrer Lo conosce già?
“La folla, da una parte e dell’altra, stava tutta in punta di piedi per vedere: mille visi, mille barbe in aria: la curiosità e l’attenzione generale creò un momento di generale silenzio. Ferrer, fermatosi quel momento sul predellino, diede un’occhiata in giro, salutò con un inchino la moltitudine, come da un pulpito, e messa la mano sinistra al petto, gridò: – Pane e giustizia; – e franco, diritto, togato, scese in terra, tra l’acclamazioni che andavano alle stelle,” F. Gonin, Il vicario Il vicario di Provvisione è a casa sua, intento a digerire un magro pasto consumato senza pane fresco, quando alcuni cittadini giungono a informarlo che la folla si dirige alla sua abitazione per linciarlo. I servi lo avvertono che i rivoltosi sono in arrivo e la fuga è ormai impossibile, così sprangano porte e finestre mentre si sente l’urlo della sommossa che si avvicina minacciosamente.
Il pover’uomo è in preda al terrore e si rifugia in soffitta, da dove si affaccia da un pertugio nella parete e scorge la folla che si avvicina, per poi rannicchiarsi in un angolo appartato e sperare vanamente che i disordini cessino. Intanto i rivoltosi hanno raggiunto la porta della casa iniziando a sconficcarla in tutti i modi e Renzo si trova in mezzo al tumulto, questa volta cacciatosi in mezzo ai disordini per scelta deliberata: il giovane non ha disapprovato il saccheggio dei forni, tuttavia non condivide l’intento della folla di mettere a morte il vicario e, pur essendo convinto che il funzionario sia un affamatore di popolo, è inorridito all’idea di spargere sangue e si è unito alla sommossa col fine di dare una mano a salvare il vicario dal linciaggio.
I più esagitati nel frattempo cercano di abbattere la porta colpendola con sassi, o lavorando con scalpelli e attrezzi vari, mentre altri cercano di aprire una breccia nel muro e altri ancora si limitano a incitare a parole, essendo tuttavia di impaccio con la loro sola presenza (per fortuna, osserva con amara ironia l’autore, accade talvolta che i sostenitori più accaniti di un’opera ne siano poi l’impedimento principale). F. Gonin, I “micheletti” schierati I magistrati di Milano che sono stati informati dell’accaduto avvertono a loro volta il comandante della guarnigione del Castello Sforzesco, presso porta Giovia, il quale invia sul posto alcuni soldati: al loro arrivo, tuttavia, essi trovano la casa del vicario cinta d’assedio dai rivoltosi e si fermano a una certa distanza, mentre l’ufficiale che li guida riflette sul da farsi. F. Gonin, Il vecchio mal vissuto Tra gli esagitati si nota un vecchio dall’aspetto trasandato e lo sguardo pieno di odio, il quale agita in aria un martello, una corda e quattro chiodi coi quali dice di voler attaccare il corpo del vicario a un battente della porta, quando il funzionario sarà stato ucciso.
Renzo è inorridito da tali parole e, vedendo che altri sembrano condividere la sua disapprovazione, si lascia sfuggire delle esclamazioni con cui incita i rivoltosi a non abbandonarsi ad atti insensati di violenza, contrari alla volontà di Dio. Uno dei rivoltosi vicino a lui sente le sue parole e lo accusa con rabbia di essere un traditore, mentre in men che non si dica si diffonde tra la folla la voce che lì in mezzo c’è una spia del vicario, o un suo servo, o addirittura il vicario che scappa travestito da contadino.
Renzo vorrebbe sparire ed è protetto da alcuni che si trovano vicini a lui, quando a un tratto si sente gridare qualcuno che chiede alla folla di fare spazio, il che salva probabilmente il giovane dalla reazione inferocita degli altri popolani. V. Fraschetti, La scala Alcuni rivoltosi stanno portando sulle spalle una lunga e pesante scala a pioli, con cui intendono arrampicarsi per entrare nella casa del vicario da una finestra: l’operazione è tuttavia assai difficile, poiché nell’avanzare tra la folla la scala sfugge di mano a chi la trasporta e picchia sulle spalle e le costole degli altri, così essa (paragonata ironicamente dall’autore a una macchina da assedio) si avvicina molto lentamente alla casa.
Renzo approfitta della confusione per sgomitare e allontanarsi dal punto in cui si trova, onde evitare rappresaglie da parte di quelli che lo hanno sentito difendere il vicario. A un tratto si sparge tra la folla la voce che sta arrivando Ferrer in carrozza, notizia che suscita le più varie reazioni e l’iniziale incredulità dei rivoltosi: tutti si voltano a guardare verso il punto indicato (senza tuttavia veder nulla a causa del gran numero di persone) e da quella parte sta proprio arrivando il gran cancelliere per cercare di trarre in salvo il vicario, approfittando della popolarità che ha acquistato con la scriteriata decisione di imporre il calmiere sul prezzo del pane.
Ben presto tra la folla si diffonde la convinzione che Ferrer sia venuto per portare il vicario in prigione e un certo numero di rivoltosi sono dunque favorevoli all’arrivo dell’alto funzionario di Stato, mentre altri sono contrari in quanto vorrebbero esser loro a farsi giustizia da sé e linciare il malcapitato vicario di Provvisione.
L’autore osserva che nelle rivolte popolari c’è sempre un certo numero di esagitati, che per i motivi più vari (perché eccitati dagli eventi, o per fanatismo, o ancora per scelleratezza o semplice gusto del soqquadro) cercano di tirare le cose al peggio e vogliono rinnovare i disordini non appena questi sembrino acquietarsi: ci sono tuttavia anche coloro che si adoperano con altrettanto impegno per ottenere l’effetto contrario, per vicinanza alle persone minacciate o soltanto per sincero orrore verso qualunque atto di violenza.
In ciascuna delle due fazioni si crea subito un comune sentire e un’identità d’intenti, mentre nel grosso della folla ci sono uomini di diverse idee e sentimenti che possono inclinare all’uno o all’altro partito, in quanto bisognosi di credere a qualcosa e facili dunque ad essere persuasi ad appoggiare un’idea o quella opposta. Renzo scansa la folla (ediz.1840) L’arrivo di Ferrer, da solo e senza alcuna scorta né apparato in mezzo a quella folla tumultuante, suscita la viva approvazione di molti che lo acclamano come un benefattore del popolo e ridà forza a coloro che stanno cercando di rabbonire i rivoltosi, perché non commettano atti di violenza.
Si diffonde anche la convinzione che egli voglia portare in prigione il vicario di Provvisione, per cui i suoi sostenitori si danno da fare per far passare la carrozza tra la folla e ripetono a tutti le sue parole, ricordando che il gran cancelliere è colui che ha messo il pane a buon mercato. Poco alla volta prevale il partito favorevole a Ferrer e alcuni rivoltosi allontanano con modi bruschi quelli che stanno ancora sconficcando la porta e il muro della casa, dicendo a coloro che stanno all’interno di tenersi pronti a fare uscire il vicario (è chiaro che il vero scopo del cancelliere è condurlo in salvo e la cosa non sfugge ad alcuni dei presenti).
Renzo chiede se si tratti di quel Ferrer che”aiuta a far le gride”, poiché si rammenta della sua firma che ha visto sotto la grida mostratagli dal dottor Azzecca-garbugli, e dopo che la cosa gli viene confermata si convince che il gran cancelliere è un galantuomo venuto a castigare il vicario, per cui il giovane decide di dare una mano e, a forza di urti e spinte, arriva di fianco alla carrozza dove si adopera per fare stare indietro la folla e consentire al veicolo di passare. G.B. Galizzi, Il cocchiere Pedro La carrozza avanza con estrema lentezza e spesso deve fermarsi, occasione in cui Ferrer si affaccia dallo sportello e, atteggiandosi all’umiltà e alla benevolenza, con l’espressione che ha tenuto in serbo per l’incontro con re Filippo IV, si rivolge ai rivoltosi cercando di quietarli e dicendo nel chiasso infernale qualche parola.
Il gran cancelliere manda baci alla folla, chiede con la mano di fare spazio e silenzio, quindi dice di voler fare “giustizia” e promette pane e abbondanza, un po’ intimorito dalla calca tremenda intorno alla sua carrozza. Egli aggiunge di essere venuto a portare il vicario in prigione, anche se precisa in spagnolo ” si es culpable ” (se è colpevole), poi sollecita il cocchiere Pedro a procedere tra la folla se gli è possibile.
Pedro sorride anche lui ai rivoltosi con fare manierato e chiede gentilmente che facciano passare la carrozza, mentre alcuni popolani ricacciano indietro gli altri e fanno un po’ di spazio in cui, pur con grande fatica, essa riesce ad avanzare. Tra questi è particolarmente attivo anche Renzo, il quale ha deciso di aiutare Ferrer nella sua opera e non intende andar via finché l’uomo non sarà riuscito a portare con sé il vicario, per cui il giovane si dà un gran da fare con urti e spintoni ed è talmente suggestionato dagli eventi che gli sembra quasi di aver stretto un legame di amicizia col gran cancelliere. F. Gonin, Ferrer e la folla La carrozza continua a procedere lentamente e a fermarsi di quando in quando, ostacolata dalla folla che ondeggia intorno ad essa come un mare in tempesta e fa sembrare un percorso assai lungo le poche decine di metri che la separano dalla casa del vicario,
Ferrer continua a rivolgersi alla folla cercando di capire cosa dicano i rivoltosi e dando le risposte più gradite alle loro orecchie, ripetendo cioè le parole “pane” e “giustizia” e promettendo di portare il vicario in prigione, mentre la folla si tira indietro a fatica e qualche popolano rischia seriamente di essere schiacciato da una delle ruote della carrozza.
Finalmente il veicolo giunge vicino alla casa del vicario e qui, proprio di fronte alla porta, si è creato uno spazio vuoto grazie all’opera incessante dei partigiani favorevoli a Ferrer, tra i quali Renzo che si trova in prima fila, in mezzo a una delle due ali di folla che accompagnano la carrozza sino alla porta dell’abitazione. F. Gonin, Ferrer scende dalla carrozza Ferrer si affretta a scendere dalla carrozza e ad avvicinarsi all’uscio sconficcato della casa, che nel frattempo è stato aperto da coloro che si trovano all’interno: il gran cancelliere sguscia rapidamente in mezzo ai battenti semichiusi, preoccupandosi che la sua toga non venga strappata, quindi scompare alla vista dei rivoltosi (l’autore lo paragona, non senza sarcasmo, a una serpe che si infila in un buco per sfuggire agli inseguitori).
All’interno il vicario scende le scale mezzo morto dalla paura e si rianima un poco alla vista di Ferrer, che si affretta a riempire di ringraziamenti: il gran cancelliere lo rassicura e lo invita a seguirlo, informandolo che è sua intenzione condurlo via sulla sua carrozza, quindi lo accompagna verso la porta, invocando tra sé l’aiuto di Dio per affrontare quel passo pericoloso e difficile.
I due escono dalla casa, Ferrer per primo e il vicario che lo segue piccino piccino, appiattito dietro alla sua toga, mentre i popolani lì vicino li aiutano a passare e cercano di sottrarre il vicario alla vista della moltitudine: quest’ultimo e il suo salvatore si affrettano a entrare nella carrozza e qui il vicario si nasconde in un angolo, mentre la folla applaude all’indirizzo di Ferrer e impreca contro l’odiato funzionario. La carrozza raggiunge il Castello Sforzesco (ediz.1840) Ferrer raccomanda al vicario di stare ben nascosto sul fondo della carrozza per non farsi vedere dalla folla, mentre il gran cancelliere si affaccia ora all’uno ora all’altro sportello rivolgendosi ai popolani e cercando di blandirli con parole accorte, promettendo cioè pane e giustizia, nonché di portare il vicario alle prigioni dove sarà castigato.
Ogni tanto, tuttavia, si volta verso l’interno e parla in spagnolo al vicario, spiegandogli che dice quelle cose solo per rabbonire i rivoltosi: così facendo riesce a tenere a bada la folla e intanto la carrozza si allontana dal cuore del tumulto, raggiungendo infine i soldati spagnoli che sono rimasti inerti e che rappresentano per il cancelliere una sorta di “soccorso di Pisa”.
L’uomo politico risponde con ironia al saluto dell’ufficiale in comando, che capisce di essere in torto e si stringe nelle spalle, quindi il cocchiere Pedro si rianima alla vista delle armi dei “micheletti” e sprona a dovere i cavalli, facendo imboccare alla carrozza la strada che conduce al Castello Sforzesco.
Ferrer esorta il vicario a rialzarsi, dal momento che il pericolo è cessato, così il funzionario si rianima e inizia a coprire di ringraziamenti il suo salvatore: il gran cancelliere è in realtà preoccupato degli sviluppi della vicenda, nonché delle reazioni del governatore di Milano, don Gonzalo de Cordoba, del primo ministro conte duca di Olivares, del re di Spagna, di fronte allo sconquasso provocato dalla rivolta di quella giornata.
Dal canto suo il vicario esprime il proposito di dimettersi dalla sua carica e di ritirarsi in una grotta o sulla cima di una montagna, lontano dalla folla inferocita dei Milanesi, ma il Ferrer gli risponde con tono grave che lui dovrà fare ciò che sarà più conveniente per il servizio al re, benché il vicario non sembri molto convinto di questa affermazione. G. Previati, La carrozza di Ferrer Nei Promessi sposi i personaggi che esercitano il potere politico sono spesso oggetto di una critica impietosa, accusati di essere degli sciocchi incompetenti e incapaci di ricoprire gli incarichi loro affidati (ciò emerge soprattutto nel periodo della peste ), oppure di agire in modo subdolo e menzognero, abili a dissimulare le loro vere intenzioni usando un linguaggio pieno di ambiguità (in questo acquista grande rilievo la questione della lingua e della sua comprensibilità da parte del popolo).
- Benché siano diversi i personaggi illustri che nel romanzo assumono questo ruolo spiacevole, l’esempio più significativo è certo quello del gran cancelliere Antonio Ferrer, protagonista del cap.
- XIII quando si reca in carrozza a trarre in salvo il vicario di Provvisione, assediato dalla folla durante il tumulto di S.
Martino: la situazione è già di per sé grottesca, in quanto Ferrer è il vero responsabile della sommossa a causa della scriteriata decisione di imporre un calmiere sul prezzo del pane (mentre il vicario è ovviamente incolpevole della carestia e del rincaro, nonostante i rivoltosi vogliano linciarlo) e tuttavia la folla lo acclama come un benefattore del popolo e lo accoglie con grandissimo favore, con un rovesciamento delle parti che suona ridicolo e decisamente parodico.
Il gran cancelliere è abile a sfruttare la popolarità che gode tra i Milanesi e se ne serve per rabbonire la folla, pronunciando parole-chiave che sa essere gradite alla moltitudine (“pane”, “giustizia”.) e promettendo falsamente di portare in carcere il vicario, mentre è ovvio che il suo intento è solo di trarlo in salvo e, infatti, si affretta a precisare che il funzionario sarà castigato “si es culpable” (se è colpevole), usando una doppia parola e un doppio linguaggio che ingannano i rivoltosi (la stessa cosa aveva fatto don Abbondio parlando in latino a Renzo, nel cap.
II ). Benché il fine di Ferrer sia nobile e giustificato dall’autore, che non ha certo simpatia per i moti popolari, tuttavia la sua figura è descritta con tratti decisamente negativi e il funzionario è mostrato come un consumato commediante abile a catturare il favore del popolo, che assiste come un pubblico alla sua eccellente performance e si lascia abbindolare dalla sua verve di attore improvvisato: per tutto l’episodio è evidente che Ferrer recita una parte a beneficio di chi lo osserva e lo ascolta, mostrando “un viso tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso.
che aveva tenuto sempre in serbo per quando si trovasse alla presenza di don Filippo IV” e usando anche una ricca gestualità per ottenere l’appoggio della folla, ad esempio mimando il gesto di inviare baci o mettendo la mano al petto per assumere un’aria di grave solennità. L’autore crea una situazione da “commedia” pur nel contesto tragico del tumulto, che raggiunge il suo culmine quando Ferrer scende dalla carrozza e riceve le acclamazioni delle due ali di folla festante, come un attore che prende l’applauso del pubblico dopo uno spettacolo: anche più avanti il gran cancelliere è protagonista di un grottesco siparietto, allorché dalla carrozza si rivolge in italiano alla folla promettendo castighi per il vicario e al contempo, come in una specie di buffo a parte, si rivolge al vicario nascosto precisando in spagnolo che dice questo solo per rabbonire il popolo, per il suo bene, chiedendogli scusa per le minacce che è costretto a proferire.
Quando invece è lontano dallo sguardo dei rivoltosi egli mostra il suo vero volto, manifestando una natura ben più misera e meschina dell’immagine solenne dell’uomo di Stato con cui si è presentato alla folla: nel momento in cui entra nella casa del vicario si preoccupa ridicolmente che la toga, simbolo del suo potere politico, non resti pizzicata in mezzo ai battenti, mentre quando sguscia all’interno della casa e il lembo della veste scompare dietro di lui, essa è paragonata alla coda “d’una serpe, che si rimbuca inseguita”, sottolineando la natura menzognera e ambigua dell’uomo politico (il serpente è anche simbolo demoniaco ed è normalmente associato alla falsità e all’ipocrisia).
E alla fine, quando ormai la carrozza è al sicuro e protetta dalle armi dei soldati che non hanno offerto alcun aiuto concreto, Ferrer getta una volta per tutte la maschera e torna a indossare i panni dell’uomo di Stato e del politico che parla il linguaggio del potere, rispondendo con frasi di scherno all’ufficiale che non ha saputo intervenire nella sommossa (“Bacio le mani a vossignoria”, in spagnolo) ed esprimendo i suoi timori circa la reazione dei suoi superiori per i disordini della sommossa, citando in un “crescendo” il governatore dello Stato, il primo ministro spagnolo, il re e Dio stesso (è chiaro che ciò che gli sta a cuore è la sua carriera politica e le conseguenze che su di essa potranno avere i fatti della giornata, non certo le ragioni profonde del disagio subìto dal popolo e di cui lui stesso è in parte responsabile).
Quando poi il povero vicario, ancora terrorizzato dalla brutta avventura che ha vissuto, manifesta il proposito di dimettersi dalla carica e di rifugiarsi in un luogo lontano da quella “gente bestiale”, Ferrer gli risponde con la freddezza del funzionario di Stato ricordandogli che lui dovrà fare ciò che sarà più conveniente “por el servicio de su magestad”, poiché ormai si è riappropriato del ruolo che gli compete e si dimostra quindi ben diverso dal Ferrer benevolo e cordiale quale si era presentato al popolo poco prima (il linguaggio della politica è dunque un linguaggio doppio e ambiguo, così come l’atteggiamento dell’uomo di Stato deve necessariamente essere falso e adattarsi alle diverse situazioni, abile nell’arte della simulazione e della dissimulazione).
Va ricordato che la critica al mondo del potere è uno dei temi portanti del libro e si esprime anche in altri celebri episodi, come il colloquio tra il conte zio e il padre provinciale dei cappuccini ( cap. XIX ) che ha come fine l’allontanamento di padre Cristoforo da Pescarenico : anche qui l’uomo politico usa tutte le tecniche di un raffinato commediante per ottenere il suo scopo, benché il suo interlocutore non sia la folla in tumulto della sommossa di Milano ma un alto prelato che appartiene al suo stesso mondo ed è dunque sensibile agli argomenti del suo linguaggio (il dialogo si svolge quindi su un piano retorico e stilistico decisamente più elevato, anche se l’atteggiamento del conte è per certi versi analogo a quello di Ferrer).
La critica di Manzoni si concentra sull’arte della politica e del potere del XVII secolo, in cui grande spazio aveva il concetto di simulazione e veniva teorizzato l’ideale della “ragion di Stato”, ma è evidente che l’autore condanna l’uso distorto del potere e del suo linguaggio indipendentemente dall’epoca della narrazione e, dunque, rende il discorso per certi versi “universale”: non si dimentichi che la stessa critica emerge anche nelle tragedie, ambientate entrambe in epoche ben diverse dal romanzo, e che lo stesso anonimo nel manoscritto accenna ai ” Labirinti de’ Politici maneggj “, lasciando intendere che parte della narrazione sarà proprio dedicata ai raggiri e ai sotterfugi che sono naturalmente propri di chi esercita il potere (Ferrer e il conte zio ne sono due importanti esempi, per cui è giustificato considerare i Promessi sposi una sorta di “romanzo del potere” in cui le strategie degli uomini di Stato vengono svelate e mostrate al lettore nella loro essenza, specie quando il fine è quello di ingannare il popolo con un uso distorto del linguaggio).
Lo sventurato vicario stava, in quel momento, facendo un chilo agro e stentato d’un desinare biascicato senza appetito, e senza pan fresco, e attendeva, con gran sospensione, come avesse a finire quella burrasca, lontano però dal sospettar che dovesse cader così spaventosamente addosso a lui. Qualche galantuomo precorse di galoppo la folla, per avvertirlo di quel che gli sovrastava. I servitori, attirati già dal rumore sulla porta, guardavano sgomentati lungo la strada, dalla parte donde il rumore veniva avvicinandosi. Mentre ascoltan l’avviso, vedon comparire la vanguardia: in fretta e in furia, si porta l’avviso al padrone: mentre questo pensa a fuggire, e come fuggire, un altro viene a dirgli che non è più a tempo. I servitori ne hanno appena tanto che basti per chiuder la porta. Metton la stanga, metton puntelli, corrono a chiuder le finestre, come quando si vede venire avanti un tempo nero, e s’aspetta la grandine, da un momento all’altro. L’urlìo crescente, scendendo dall’alto come un tuono, rimbomba nel vòto cortile; ogni buco della casa ne rintrona: e di mezzo al vasto e confuso strepito, si senton forti e fitti colpi di pietre alla porta. – Il vicario! Il tiranno! L’affamatore! Lo vogliamo! vivo o morto! Il meschino girava di stanza in stanza, pallido, senza fiato, battendo palma a palma, raccomandandosi a Dio, e a’ suoi servitori, che tenessero fermo, che trovassero la maniera di farlo scappare. Ma come, e di dove? Salì in soffitta; da un pertugio, guardò ansiosamente nella strada, e la vide piena zeppa di furibondi; sentì le voci che chiedevan la sua morte; e più smarrito che mai, si ritirò, e andò a cercare il più sicuro e riposto nascondiglio. Lì rannicchiato, stava attento, attento, se mai il funesto rumore s’affievolisse, se il tumulto s’acquietasse un poco; ma sentendo in vece il muggito alzarsi più feroce e più rumoroso, e raddoppiare i picchi, preso da un nuovo soprassalto al cuore, si turava gli orecchi in fretta. Poi, come fuori di sé, stringendo i denti, e raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e puntava i pugni, come se volesse tener ferma la porta. Del resto, quel che facesse precisamente non si può sapere, giacché era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fortuna che c’è avvezza, Renzo, questa volta, si trovava nel forte del tumulto, non già portatovi dalla piena, ma cacciatovisi deliberatamente. A quella prima proposta di sangue, aveva sentito il suo rimescolarsi tutto: in quanto al saccheggio, non avrebbe saputo dire se fosse bene o male in quel caso; ma l’idea dell’omicidio gli cagionò un orrore pretto e immediato. E quantunque, per quella funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti, fosse persuasissimo che il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de’ poveri, pure, avendo, al primo moversi della turba, sentita a caso qualche parola che indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s’era subito proposto d’aiutare anche lui un’opera tale; e, con quest’intenzione, s’era cacciato, quasi fino a quella porta, che veniva travagliata in cento modi. Chi con ciottoli picchiava su’ chiodi della serratura, per isconficcarla; altri, con pali e scarpelli e martelli, cercavano di lavorar più in regola: altri poi, con pietre, con coltelli spuntati, con chiodi, con bastoni, con l’unghie, non avendo altro, scalcinavano e sgretolavano il muro, e s’ingegnavano di levare i mattoni, e fare una breccia. Quelli che non potevano aiutare, facevan coraggio con gli urli; ma nello stesso tempo, con lo star lì a pigiare, impicciavan di più il lavoro già impicciato dalla gara disordinata de’ lavoranti: giacché, per grazia del cielo, accade talvolta anche nel male quella cosa troppo frequente nel bene, che i fautori più ardenti divengano un impedimento. I magistrati ch’ebbero i primi l’avviso di quel che accadeva, spediron subito a chieder soccorso al comandante del castello, che allora si diceva di porta Giovia ; il quale mandò alcuni soldati. Ma, tra l’avviso, e l’ordine, e il radunarsi, e il mettersi in cammino, e il cammino, essi arrivarono che la casa era già cinta di vasto assedio; e fecero alto lontano da quella, all’estremità della folla. L’ufiziale che li comandava, non sapeva che partito prendere. Lì non era altro che una, lasciatemi dire, accozzaglia di gente varia d’età e di sesso, che stava a vedere. All’intimazioni che gli venivan fatte, di sbandarsi, e di dar luogo, rispondevano con un cupo e lungo mormorìo; nessuno si moveva. Far fuoco sopra quella ciurma, pareva all’ufiziale cosa non solo crudele, ma piena di pericolo; cosa che, offendendo i meno terribili, avrebbe irritato i molti violenti: e del resto, non aveva una tale istruzione. Aprire quella prima folla, rovesciarla a destra e a sinistra, e andare avanti a portar la guerra a chi la faceva, sarebbe stata la meglio; ma riuscirvi, lì stava il punto. Chi sapeva se i soldati avrebber potuto avanzarsi uniti e ordinati? Che se, in vece di romper la folla, si fossero sparpagliati loro tra quella, si sarebber trovati a sua discrezione, dopo averla aizzata. L’irresolutezza del comandante e l’immobilità de’ soldati parve, a diritto o a torto, paura. La gente che si trovavan vicino a loro, si contentavano di guardargli in viso, con un’aria, come si dice, di me n’impipo ; quelli ch’erano un po’ più lontani, non se ne stavano di provocarli, con visacci e con grida di scherno; più in là, pochi sapevano o si curavano che ci fossero; i guastatori seguitavano a smurare, senz’altro pensiero che di riuscir presto nell’impresa; gli spettatori non cessavano d’animarla con gli urli. Spiccava tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse. – Oibò! vergogna! – scappò fuori Renzo, inorridito a quelle parole, alla vista di tant’altri visi che davan segno d’approvarle, e incoraggito dal vederne degli altri, sui quali, benché muti, traspariva lo stesso orrore del quale era compreso lui. – Vergogna! Vogliam noi rubare il mestiere al boia? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste atrocità? Ci manderà de’ fulmini, e non del pane! – Ah cane! ah traditor della patria! – gridò, voltandosi a Renzo, con un viso da indemoniato, un di coloro che avevan potuto sentire tra il frastono quelle sante parole. – Aspetta, aspetta! È un servitore del vicario, travestito da contadino: è una spia: dàlli, dàlli! – Cento voci si spargono all’intorno. – Cos’è? dov’è? chi è? Un servitore del vicario. Una spia. Il vicario travestito da contadino, che scappa. Dov’è? dov’è? dàlli, dàlli! Renzo ammutolisce, diventa piccino piccino, vorrebbe sparire; alcuni suoi vicini lo prendono in mezzo; e con alte e diverse grida cercano di confondere quelle voci nemiche e omicide. Ma ciò che più di tutto lo servì fu un – largo, largo, – che si sentì gridar lì vicino: – largo! è qui l’aiuto: largo, ohe! Cos’era? Era una lunga scala a mano, che alcuni portavano, per appoggiarla alla casa, e entrarci da una finestra. Ma per buona sorte, quel mezzo, che avrebbe resa la cosa facile, non era facile esso a mettere in opera. I portatori, all’una e all’altra cima, e di qua e di là della macchina, urtati, scompigliati, divisi dalla calca, andavano a onde: uno, con la testa tra due scalini, e gli staggi sulle spalle, oppresso come sotto un giogo scosso, mugghiava; un altro veniva staccato dal carico con una spinta; la scala abbandonata picchiava spalle, braccia, costole: pensate cosa dovevan dire coloro de’ quali erano. Altri sollevano con le mani il peso morto, vi si caccian sotto, se lo mettono addosso, gridando: – animo! andiamo! – La macchina fatale s’avanza balzelloni, e serpeggiando. Arrivò a tempo a distrarre e a disordinare i nemici di Renzo, il quale profittò della confusione nata nella confusione; e, quatto quatto sul principio, poi giocando di gomita a più non posso, s’allontanò da quel luogo, dove non c’era buon’aria per lui, con l’intenzione anche d’uscire, più presto che potesse, dal tumulto, e d’andar davvero a trovare o a aspettare il padre Bonaventura. Tutt’a un tratto, un movimento straordinario cominciato a una estremità, si propaga per la folla, una voce si sparge, viene avanti di bocca in bocca: – Ferrer! Ferrer! – Una maraviglia, una gioia, una rabbia, un’inclinazione, una ripugnanza, scoppiano per tutto dove arriva quel nome; chi lo grida, chi vuol soffogarlo; chi afferma, chi nega, chi benedice, chi bestemmia. – È qui Ferrer! – Non è vero, non è vero! – Sì, sì; viva Ferrer! quello che ha messo il pane a buon mercato. – No, no! – E qui, è qui in carrozza. – Cosa importa? che c’entra lui? non vogliamo nessuno! – Ferrer! viva Ferrer! l’amico della povera gente! viene per condurre in prigione il vicario. – No, no: vogliamo far giustizia noi: indietro, indietro! – Sì, sì: Ferrer! venga Ferrer! in prigione il vicario! E tutti, alzandosi in punta di piedi, si voltano a guardare da quella parte donde s’annunziava l’inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano né più né meno che se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant’è, tutti s’alzavano. In fatti, all’estremità della folla, dalla parte opposta a quella dove stavano i soldati, era arrivato in carrozza Antonio Ferrer, il gran cancelliere; il quale, rimordendogli probabilmente la coscienza d’essere co’ suoi spropositi e con la sua ostinazione, stato causa, o almeno occasione di quella sommossa, veniva ora a cercar d’acquietarla, e d’impedirne almeno il più terribile e irreparabile effetto: veniva a spender bene una popolarità mal acquistata. Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero d’uomini che, o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse né fine né misura. Ma per contrappeso, c’è sempre anche un certo numero d’altri uomini che, con pari ardore e con insistenza pari, s’adoprano per produr l’effetto contrario: taluni mossi da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de’ fatti atroci. Il cielo li benedica. In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano concerti antecedenti, l’uniformità de’ voleri crea un concerto istantaneo nell’operazioni. Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio accidentale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro. Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno con l’altro: cos’è stato? Siccome però questa massa, avendo la maggior forza, la può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive usa ogni arte per tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime nemiche, che combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo movere. Fanno a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che riaccendano gli sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l’una o per l’altra parte. Tutta questa chiacchierata s’è fatta per venire a dire che, nella lotta tra le due parti che si contendevano il voto della gente affollata alla casa del vicario, l’apparizione d’Antonio Ferrer diede, quasi in un momento, un gran vantaggio alla parte degli umani, la quale era manifestamente al di sotto, e, un po’ più che quel soccorso fosse tardato, non avrebbe avuto più, né forza, né motivo di combattere. L’uomo era gradito alla moltitudine, per quella tariffa di sua invenzione così favorevole a’ compratori, e per quel suo eroico star duro contro ogni ragionamento in contrario. Gli animi già propensi erano ora ancor più innamorati dalla fiducia animosa del vecchio che, senza guardie, senza apparato, veniva così a trovare, ad affrontare una moltitudine irritata e procellosa. Faceva poi un effetto mirabile il sentire che veniva a condurre in prigione il vicario: così il furore contro costui, che si sarebbe scatenato peggio, chi l’avesse preso con le brusche, e non gli avesse voluto conceder nulla, ora, con quella promessa di soddisfazione, con quell’osso in bocca, s’acquietava un poco, e dava luogo agli altri opposti sentimenti, che sorgevano in una gran parte degli animi. I partigiani della pace, ripreso fiato, secondavano Ferrer in cento maniere: quelli che si trovavan vicini a lui, eccitando e rieccitando col loro il pubblico applauso, e cercando insieme di far ritirare la gente, per aprire il passo alla carrozza; gli altri, applaudendo, ripetendo e facendo passare le sue parole, o quelle che a lor parevano le migliori che potesse dire, dando sulla voce ai furiosi ostinati, e rivolgendo contro di loro la nuova passione della mobile adunanza. – Chi è che non vuole che si dica: viva Ferrer? Tu non vorresti eh, che il pane fosse a buon mercato? Son birboni che non vogliono una giustizia da cristiani: e c’è di quelli che schiamazzano più degli altri, per fare scappare il vicario. In prigione il vicario! Viva Ferrer! Largo a Ferrer! – E crescendo sempre più quelli che parlavan così, s’andava a proporzione abbassando la baldanza della parte contraria; di maniera che i primi dal predicare vennero anche a dar sulle mani a quelli che diroccavano ancora, a cacciarli indietro, a levar loro dall’unghie gli ordigni. Questi fremevano, minacciavano anche, cercavan di rifarsi; ma la causa del sangue era perduta: il grido che predominava era: prigione, giustizia, Ferrer! Dopo un po’ di dibattimento, coloro furon respinti: gli altri s’impadroniron della porta, e per tenerla difesa da nuovi assalti, e per prepararvi l’adito a Ferrer; e alcuno di essi, mandando dentro una voce a quelli di casa (fessure non ne mancava), gli avvisò che arrivava soccorso, e che facessero star pronto il vicario, – per andar subito. in prigione: ehm, avete inteso? – È quel Ferrer che aiuta a far le gride? – domandò a un nuovo vicino il nostro Renzo, che si rammentò del vidit Ferrer che il dottore gli aveva gridato all’orecchio, facendoglielo vedere in fondo di quella tale. – Già: il gran cancelliere – gli fu risposto. – È un galantuomo, n’è vero? – Eccome se è un galantuomo! è quello che aveva messo il pane a buon mercato; e gli altri non hanno voluto; e ora viene a condurre in prigione il vicario, che non ha fatto le cose giuste. Non fa bisogno di dire che Renzo fu subito per Ferrer. Volle andargli incontro addirittura: la cosa non era facile; ma con certe sue spinte e gomitate da alpigiano, riuscì a farsi far largo, e a arrivare in prima fila, proprio di fianco alla carrozza. Era questa già un po’ inoltrata nella folla; e in quel momento stava ferma, per uno di quegl’incagli inevitabili e frequenti, in un’andata di quella sorte. Il vecchio Ferrer presentava ora all’uno, ora all’altro sportello, un viso tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso, un viso che aveva tenuto sempre in serbo per quando si trovasse alla presenza di don Filippo IV ; ma fu costretto a spenderlo anche in quest’occasione. Parlava anche; ma il chiasso e il ronzlo di tante voci, gli evviva stessi che si facevano a lui, lasciavano ben poco e a ben pochi sentir le sue parole. S’aiutava dunque co’ gesti, ora mettendo la punta delle mani sulle labbra, a prendere un bacio che le mani, separandosi subito, distribuivano a destra e a sinistra in ringraziamento alla pubblica benevolenza; ora stendendole e movendole lentamente fuori d’uno sportello, per chiedere un po’ di luogo; ora abbassandole garbatamente, per chiedere un po’ di silenzio. Quando n’aveva ottenuto un poco, i più vicini sentivano e ripetevano le sue parole: – pane, abbondanza: vengo a far giustizia: un po’ di luogo di grazia -. Sopraffatto poi e come soffogato dal fracasso di tante voci, dalla vista di tanti visi fitti, di tant’occhi addosso a lui, si tirava indietro un momento, gonfiava le gote, mandava un gran soffio, e diceva tra sé: ” por mi vida’ que de gente! ” – Viva Ferrer! Non abbia paura. Lei è un galantuomo. Pane, pane! – Sì; pane, pane, – rispondeva Ferrer: – abbondanza; lo prometto io, – e metteva la mano al petto. – Un po’ di luogo, – aggiungeva subito: – vengo per condurlo in prigione, per dargli il giusto gastigo che si merita: – e soggiungeva sottovoce: – si es culpable -. Chinandosi poi innanzi verso il cocchiere, gli diceva in fretta: – adelante’ Pedro’ si puedes, Il cocchiere sorrideva anche lui alla moltitudine, con una grazia affettuosa, come se fosse stato un gran personaggio; e con un garbo ineffabile, dimenava adagio adagio la frusta, a destra e a sinistra, per chiedere agl’incomodi vicini che si ristringessero e si ritirassero un poco. – Di grazia, – diceva anche lui, – signori miei, un po’ di luogo, un pochino; appena appena da poter passare. Intanto i benevoli più attivi s’adopravano a far fare il luogo chiesto così gentilmente. Alcuni davanti ai cavalli facevano ritirar le persone, con buone parole, con un mettere le mani sui petti, con certe spinte soavi: – in là, via, un po’ di luogo, signori -; alcuni facevan lo stesso dalle due parti della carrozza, perché potesse passare senza arrotar piedi, né ammaccar mostacci ; che, oltre il male delle persone, sarebbe stato porre a un gran repentaglio l’auge d’Antonio Ferrer. Renzo, dopo essere stato qualche momento a vagheggiare quella decorosa vecchiezza, conturbata un po’ dall’angustia, aggravata dalla fatica, ma animata dalla sollecitudine, abbellita, per dir così, dalla speranza di togliere un uomo all’angosce mortali, Renzo, dico, mise da parte ogni pensiero d’andarsene; e si risolvette d’aiutare Ferrer, e di non abbandonarlo, fin che non fosse ottenuto l’intento. Detto fatto, si mise con gli altri a far far largo; e non era certo de’ meno attivi. Il largo si fece; – venite pure avanti, – diceva più d’uno al cocchiere, ritirandosi o andando a fargli un po’ di strada più innanzi. – Adelante, presto, con juicio, – gli disse anche il padrone; e la carrozza si mosse. Ferrer, in mezzo ai saluti che scialacquava al pubblico in massa, ne faceva certi particolari di ringraziamento, con un sorriso d’intelligenza, a quelli che vedeva adoprarsi per lui: e di questi sorrisi ne toccò più d’uno a Renzo, il quale per verità se li meritava, e serviva in quel giorno il gran cancelliere meglio che non avrebbe potuto fare il più bravo de’ suoi segretari. Al giovane montanaro invaghito di quella buona grazia, pareva quasi d’aver fatto amicizia con Antonio Ferrer. La carrozza, una volta incamminata, seguitò poi, più o meno adagio, e non senza qualche altra fermatina. Il tragitto non era forse più che un tiro di schioppo; ma riguardo al tempo impiegatovi, avrebbe potuto parere un viaggetto, anche a chi non avesse avuto la santa fretta di Ferrer. La gente si moveva, davanti e di dietro, a destra e a sinistra della carrozza, a guisa di cavalloni intorno a una nave che avanza nel forte della tempesta. Più acuto, più scordato, più assordante di quello della tempesta era il frastono. Ferrer, guardando ora da una parte, ora dall’altra; atteggiandosi e gestendo insieme, cercava d’intender qualche cosa, per accomodar le risposte al bisogno; voleva far alla meglio un po’ di dialogo con quella brigata d’amici; ma la cosa era difficile, la più difficile forse che gli fosse ancora capitata, in tant’anni di gran-cancellierato. Ogni tanto però, qualche parola, anche qualche frase, ripetuta da un crocchio nel suo passaggio, gli si faceva sentire, come lo scoppio d’un razzo più forte si fa sentire nell’immenso scoppiettìo d’un fuoco artifiziale. E lui, ora ingegnandosi di rispondere in modo soddisfacente a queste grida, ora dicendo a buon conto le parole che sapeva dover esser più accette, o che qualche necessità istantanea pareva richiedere, parlò anche lui per tutta la strada. – Sì, signori; pane, abbondanza. Lo condurrò io in prigione: sarà gastigato. si es culpable, Sì, sì, comanderò io: il pane a buon mercato. Asi es, così è, voglio dire: il re nostro signore non vuole che codesti fedelissimi vassalli patiscan la fame. Ox! ox! guardaos : non si facciano male, signori. Pedro’ adelante con juicio, Abbondanza, abbondanza. Un po’ di luogo, per carità. Pane, pane. In prigione, in prigione. Cosa? – domandava poi a uno che s’era buttato mezzo dentro lo sportello, a urlargli qualche suo consiglio o preghiera o applauso che fosse. Ma costui, senza poter neppure ricevere il “cosa?” era stato tirato indietro da uno che lo vedeva lì lì per essere schiacciato da una rota. Con queste botte e risposte, tra le incessanti acclamazioni, tra qualche fremito anche d’opposizione, che si faceva sentire qua e là, ma era subito soffogato, ecco alla fine Ferrer arrivato alla casa, per opera principalmente di que’ buoni ausiliari. Gli altri che, come abbiam detto, eran già lì con le medesime buone intenzioni, avevano intanto lavorato a fare e a rifare un po’ di piazza. Prega, esorta, minaccia; pigia, ripigia, incalza di qua e di là, con quel raddoppiare di voglia, e con quel rinnovamento di forze che viene dal veder vicino il fine desiderato; gli era finalmente riuscito di divider la calca in due, e poi di spingere indietro le due calche; tanto che, tra la porta e la carrozza, che vi si fermò davanti, v’era un piccolo spazio voto. Renzo, che, facendo un po’ da battistrada, un po’ da scorta, era arrivato con la carrozza, poté collocarsi in una di quelle due frontiere di benevoli, che facevano, nello stesso tempo, ala alla carrozza e argine alle due onde prementi di popolo. E aiutando a rattenerne una con le poderose sue spalle, si trovò anche in un bel posto per poter vedere. Ferrer mise un gran respiro, quando vide quella piazzetta libera, e la porta ancor chiusa. Chiusa qui vuol dire non aperta; del resto i gangheri eran quasi sconficcati fuor de’ pilastri: i battenti scheggiati, ammaccati, sforzati e scombaciati nel mezzo lasciavano veder fuori da un largo spiraglio un pezzo di catenaccio storto, allentato, e quasi divelto, che, se vogliam dir così, li teneva insieme. Un galantuomo s’era affacciato a quel fesso, a gridar che aprissero; un altro spalancò in fretta lo sportello della carrozza: il vecchio mise fuori la testa, s’alzò, e afferrando con la destra il braccio di quel galantuomo, uscì, e scese sul predellino. La folla, da una parte e dall’altra, stava tutta in punta di piedi per vedere: mille visi, mille barbe in aria: la curiosità e l’attenzione generale creò un momento di generale silenzio. Ferrer, fermatosi quel momento sul predellino, diede un’occhiata in giro, salutò con un inchino la moltitudine, come da un pulpito, e messa la mano sinistra al petto, gridò: – pane e giustizia -; e franco, diritto, togato, scese in terra, tra l’acclamazioni che andavano alle stelle. Intanto quelli di dentro avevano aperto, ossia avevan finito d’aprire, tirando via il catenaccio insieme con gli anelli già mezzi sconficcati, e allargando lo spiraglio, appena quanto bastava per fare entrare il desideratissimo ospite. – Presto, presto, – diceva lui: – aprite bene, ch’io possa entrare: e voi, da bravi, tenete indietro la gente; non mi lasciate venire addosso. per l’amor del cielo! Serbate un po’ di largo per tra poco. Ehi! ehi! signori, un momento, – diceva poi ancora a quelli di dentro: – adagio con quel battente, lasciatemi passare: eh! le mie costole; vi raccomando le mie costole. Chiudete ora: no; eh! eh! la toga! la toga! – Sarebbe in fatti rimasta presa tra i battenti, se Ferrer non n’avesse ritirato con molta disinvoltura lo strascico, che disparve come la coda d’una serpe, che si rimbuca inseguita. Riaccostati i battenti, furono anche riappuntellati alla meglio. Di fuori, quelli che s’eran costituiti guardia del corpo di Ferrer, lavoravano di spalle, di braccia e di grida, a mantener la piazza vota, pregando in cuor loro il Signore che lo facesse far presto. – Presto, presto, – diceva anche Ferrer di dentro, sotto il portico, ai servitori, che gli si eran messi d’intorno ansanti, gridando: – sia benedetto! ah eccellenza! oh eccellenza! uh eccellenza! – Presto, presto, – ripeteva Ferrer: – dov’è questo benedett’uomo? Il vicario scendeva le scale, mezzo strascicato e mezzo portato da altri suoi servitori, bianco come un panno lavato. Quando vide il suo aiuto, mise un gran respiro; gli tornò il polso, gli scorse un po’ di vita nelle gambe, un po’ di colore sulle gote; e corse, come poté, verso Ferrer, dicendo: – sono nelle mani di Dio e di vostra eccellenza. Ma come uscir di qui? Per tutto c’è gente che mi vuol morto. – Venga usted con migo, e si faccia coraggio: qui fuori c’è la mia carrozza; presto, presto -. Lo prese per la mano, e lo condusse verso la porta, facendogli coraggio tuttavia; ma diceva intanto tra sé: ” aqui està el busilis; Dios nos valga! ” La porta s’apre; Ferrer esce il primo; l’altro dietro, rannicchiato, attaccato, incollato alla toga salvatrice, come un bambino alla sottana della mamma. Quelli che avevan mantenuta la piazza vota, fanno ora, con un alzar di mani, di cappelli, come una rete, una nuvola, per sottrarre alla vista pericolosa della moltitudine il vicario; il quale entra il primo nella carrozza, e vi si rimpiatta in un angolo. Ferrer sale dopo; lo sportello vien chiuso. La moltitudine vide in confuso, riseppe, indovinò quel ch’era accaduto; e mandò un urlo d’applausi e d’imprecazioni. La parte della strada che rimaneva da farsi, poteva parer la più difficile e la più pericolosa. Ma il voto pubblico era abbastanza spiegato per lasciar andare in prigione il vicario ; e nel tempo della fermata, molti di quelli che avevano agevolato l’arrivo di Ferrer, s’eran tanto ingegnati a preparare e a mantener come una corsìa nel mezzo della folla, che la carrozza poté, questa seconda volta, andare un po’ più lesta, e di seguito. Di mano in mano che s’avanzava, le due folle rattenute dalle parti, si ricadevano addosso e si rimischiavano, dietro a quella. Ferrer, appena seduto, s’era chinato per avvertire il vicario, che stesse ben rincantucciato nel fondo, e non si facesse vedere, per l’amor del cielo; ma l’avvertimento era superfluo. Lui, in vece, bisognava che si facesse vedere, per occupare e attirare a sé tutta l’attenzione del pubblico. E per tutta questa gita, come nella prima, fece al mutabile uditorio un discorso, il più continuo nel tempo, e il più sconnesso nel senso, che fosse mai; interrompendolo però ogni tanto con qualche parolina spagnola, che in fretta in fretta si voltava a bisbigliar nell’orecchio del suo acquattato compagno. – Sì, signori; pane e giustizia: in castello, in prigione, sotto la mia guardia. Grazie, grazie, grazie tante. No, no: non iscapperà. Por ablandarlos, E troppo giusto; s’esaminerà, si vedrà. Anch’io voglio bene a lor signori. Un gastigo severo. Esto lo digo por su bien, Una meta giusta, una meta onesta, e gastigo agli affamatori. Si tirin da parte, di grazia. Sì, sì; io sono un galantuomo, amico del popolo. Sarà gastigato: è vero, è un birbante, uno scellerato. Perdone, usted, La passerà male, la passerà male. si es culpable, Sì, sì, li faremo rigar diritto i fornai. Viva il re, e i buoni milanesi, suoi fedelissimi vassalli! Sta fresco, sta fresco. Animo; estamos ya quasi fuera, Avevano in fatti attraversata la maggior calca, e già eran vicini a uscir al largo, del tutto. Lì Ferrer, mentre cominciava a dare un po’ di riposo a’ suoi polmoni, vide il soccorso di Pisa, que’ soldati spagnoli, che però sulla fine non erano stati affatto inutili, giacché sostenuti e diretti da qualche cittadino, avevano cooperato a mandare in pace un po’ di gente, e a tenere il passo libero all’ultima uscita. All’arrivar della carrozza, fecero ala, e presentaron l’arme al gran cancelliere, il quale fece anche qui un saluto a destra, un saluto a sinistra; e all’ufiziale, che venne più vicino a fargli il suo, disse, accompagnando le parole con un cenno della destra: – beso a usted las manos -: parole che l’ufiziale intese per quel che volevano dir realmente, cioè: m’avete dato un bell’aiuto! In risposta, fece un altro saluto, e si ristrinse nelle spalle. Era veramente il caso di dire: cedant arma togae ; ma Ferrer non aveva in quel momento la testa a citazioni: e del resto sarebbero state parole buttate via, perché l’ufiziale non intendeva il latino. A Pedro, nel passar tra quelle due file di micheletti, tra que’ moschetti così rispettosamente alzati, gli tornò in petto il cuore antico. Si riebbe affatto dallo sbalordimento, si rammentò chi era, e chi conduceva; e gridando: – ohe! ohe! – senz’aggiunta d’altre cerimonie, alla gente ormai rada abbastanza per poter esser trattata così, e sferzando i cavalli, fece loro prender la rincorsa verso il castello. – Levantese’ levantese; estàmos ya fuera, – disse Ferrer al vicario; il quale, rassicurato dal cessar delle grida, e dal rapido moto della carrozza, e da quelle parole, si svolse, si sgruppò, s’alzò; e riavutosi alquanto, cominciò a render grazie, grazie e grazie al suo liberatore. Questi, dopo essersi condoluto con lui del pericolo e rallegrato della salvezza: – ah! – esclamò, battendo la mano sulla sua zucca monda, – que dirà de esto su excelencia, che ha già tanto la luna a rovescio, per quel maledetto Casale, che non vuole arrendersi? Que dirà el conde duque, che piglia ombra se una foglia fa più rumore del solito? Que dirà el rey nuestro señor, che pur qualche cosa bisognerà che venga a risapere d’un fracasso così? E sarà poi finito? Dios lo sabe, – Ah! per me, non voglio più impicciarmene, – diceva il vicario: – me ne chiamo fuori; rassegno la mia carica nelle mani di vostra eccellenza, e vo a vivere in una grotta, sur una montagna, a far l’eremita, lontano, lontano da questa gente bestiale. – Usted farà quello che sarà più conveniente por el servicio de su magestad, – rispose gravemente il gran cancelliere. – Sua maestà non vorrà la mia morte, – replicava il vicario: – in una grotta, in una grotta; lontano da costoro. Che avvenisse poi di questo suo proponimento non lo dice il nostro autore, il quale, dopo avere accompagnato il pover’uomo in castello, non fa più menzione de’ fatti suoi. | 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 85 90 95 100 105 110 115 120 125 130 135 140 145 150 155 160 165 170 175 180 185 190 195 200 205 210 215 220 225 230 235 240 245 250 255 260 265 270 275 280 285 290 295 |