Mosè e i Dieci comandamenti – Le Tavole della Legge su cui Dio fece incidere a Mosè i Dieci comandamenti erano due ed erano in pietra, perché la pietra è simbolo di stabilità e durata. La prima Tavola conteneva i primi tre comandamenti; la seconda Tavola gli altri sette.
Furono consegnate da Dio a Mosè sul monte Sinai, durante il viaggio durato quarant’anni verso la Terra Promessa (la Palestina). Queste due Tavole fondarono la nazione ebraica: gli divennero un popolo che si riconosceva nella stessa legislazione religiosa e sociale. Mosè fece costruire, su richiesta di Dio, una cassa, detta, per custodire e trasportare le due Tavole, poi conservate nel quando il re Salomone lo fece costruire.
Andarono perdute in epoca ignota. Secondo la religione ebraica i doveri indicati da Dio nel decalogo non sono riservati soltanto al popolo ebraico, perché essi esprimono principi etici comuni a tutti gli uomini. Pertanto il ha accolto e fatto propri questi insegnamenti e oggi rientrano nell’ambito del catechismo cattolico.
Che cosa consegna Dio a Mosè?
La vicenda narrata nella Bibbia – La liberazione dalla schiavitù, Mosè nasce nel periodo in cui gli sono schiavi in Egitto. Quando il faraone ordina di uccidere tutti i bambini maschi, Mosè viene messo in una cesta di vimini e abbandonato sulla riva del Nilo, dove la figlia del faraone lo raccoglie e lo adotta come suo figlio.
- Per un certo periodo egli vive a corte come un principe; poi, diventato grande, si accorge che il suo popolo è oppresso e uccide un egiziano per difendere un ebreo.
- Per questo è costretto a fuggire nella terra di Madian, dove si sposa con la figlia di un sacerdote del posto e dove gli appare Dio che gli rivela il suo nome e gli ordina di tornare in Egitto per liberare il suo popolo, aiutato da suo fratello Aronne.
Di fronte al rifiuto del faraone di lasciare liberi gli Ebrei, Mosè e Aronne scatenano sull’Egitto una serie di calamità ( le piaghe ). L’ultima piaga, la morte di tutti i primogeniti d’Egitto, convince il faraone a lasciar andare gli Ebrei. Nella notte in cui questo avviene, gli Ebrei proteggono i propri figli spalmando sugli stipiti delle porte il sangue di un agnello sacrificato a Dio: questo evento è all’origine della festa della Pasqua ebraica.
- Dopo aver attraversato il Mar Rosso, che si apre per farli passare e si richiude sugli Egiziani che li inseguono ( Esodo 14), gli Ebrei si addentrano nel deserto diretti verso la loro terra d’origine, nutrendosi di una sostanza farinosa che piove dal cielo, la manna ( Esodo 16).
- L’alleanza con Dio,
- Nel deserto del Sinai Mosè sale su un monte dove incontra Dio e riceve da lui i Dieci comandamenti e una serie di leggi ( Esodo 19 e seguenti).
Il popolo si impegna a osservare la Legge di Dio con un rito di alleanza. Questa prima alleanza con Dio viene rotta, perché il popolo, mentre Mosè è sul monte, costruisce un’immagine divina a forma di vitello ( Esodo 32). Per questo peccato del popolo Mosè implora e ottiene il perdono di Dio, e risale di nuovo sul monte per ottenere una nuova Legge ( Esodo 34).
Perché Mosè spezza le tavole della legge?
Ricevuti i Dieci Comandamenti, Mosè scese dal Sinai e trovò il Popolo di Israele in adorazione di un vitello d’oro: dinnanzi a questo affronto, scagliò le Tavole per la rabbia provata, distruggendole.
Cosa c’era scritto sulle tavole di Mosè?
Narrazione biblica – Illustrazione del 1896 raffigurante Mosé che riceve i comandamenti sul Sinai La narrazione biblica della rivelazione al Sinai ha inizio in Esodo 19 dopo l’arrivo dei figli d’Israele al Monte Sinai (chiamato anche Horeb). La mattina del terzo giorno del loro accampamento, “vi furono tuoni e fulmini e la cima del monte era ricoperta da nubi.
E si udì il suono di trombe”, e le persone si radunarono alla base del monte. Il Signore si manifestò sul monte Sinai e Mosé, che si era portato sulla sua cima per verificare cosa stesse accadendo, ne tornò ai piedi con le tavole della Legge che mostrò ai presenti, I moderni bibliologi discutono ancora oggi se Dio abbia comunicato i suoi dieci comandamenti direttamente al popolo d’Israele o se la notizia sia stata portata al popolo da Mosé.
La Bibbia dice che il popolo ebbe paura, ma Mosè li rassicurò. e la mattina successiva tutti furono concordi e obbedienti alla parola del Signore. Mosè guidò personalmente un gruppo selezionato composto da Aronne, Nadab e Abihu e settanta altri anziani d’Israele al luogo nel monte dove era avvenuta “l’alleanza” tra Dio e il suo popolo e questi “videro il Dio d’Israele” su un trono di zaffiro.
«Sali verso di me sul monte e rimani lassù: io ti darò le tavole di pietra, la legge e i comandamenti che io ho scritto per istruirli». Mosè si alzò con Giosuè, suo aiutante, e Mosè salì sul monte di Dio.» |
( Esodo 24:12–13 ) |
Il monte era coperto di nubi e rimase tale per sei giorni consecutivi, ed il settimo Mosè si portò tra di esse e vi rimase per quaranta giorni e quaranta notti. E Mosé, tornato tra i suoi, disse “il Signore mi diede le due tavole di pietra, scritte dal dito di Dio, sulle quali stavano tutte le parole che il Signore vi aveva dette sul monte, in mezzo al fuoco, il giorno dell’assemblea.” Prima della fine dei quaranta giorni, ad ogni modo, il popolo d’Israele pensò che qualcosa doveva essere accaduto a Mosè se questi non era ancora tornato e pertanto costrinse Aronne a fabbricare un vitello d’oro e un altare per adorarlo, cosa che il popolo fece. Mosè con le tavole della Legge (1659) dipinto di Rembrandt Dopo trascorsi i quaranta giorni, Mosè e Giosuè scesero dal monte con le tavole di pietra: “Come fu vicino all’accampamento, vide il vitello e le danze; allora l’ira di Mosè si accese ed egli gettò dalle mani le tavole e le spezzò ai piedi del monte.” Dopo gli eventi contenuti nei capitoli 32 e 33, il Signore disse a Mosè, “Taglia due tavole di pietra come le prime.
Come si chiamano le tavole della legge ricevute da Mosè?
Dove sono conservate le tavole dei Dieci Comandamenti? I Dieci Comandamenti sono Leggi Sacre scritte su due tavole di pietra, anche chiamati decalogo e come sappiamo, rappresentano un punto importante dell’ Antico Testamento per la religione cristiana.
- Secondo la Bibbia, le tavole furono date da Yahmeh a Mosè sul Monte Sinai e indicano le Leggi che ogni buon cristiano deve seguire.
- Esistono due tradizioni bibliche: secondo una di queste le tavole in pietra sono state scritte dal dito di Dio, secondo l’altra fu lo stesso Mosè a inciderle per volere di Dio.
Una piccola curiosità riguardo l’ebraismo: ancora oggi in occasione della, viene celebrato l’evento in cui Mosè riceve le tavole dei Dieci Comandamenti,
Quando Mosè riceve le tavole della legge?
Il quadro rappresenta un episodio biblico: Mosè, raffigurato come un anziano dal volto verde, si accinge a prendere da Dio le tavole della legge sul monte Sinai.
Mosè riceve le tavole della legge | |
---|---|
Autore | Marc Chagall |
Data | 1950-1952 |
Tecnica | olio su tela |
Dimensioni | 194,5×129,8 cm |
Dove Mosè ricevette le tavole della legge?
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera. Mosè riceve le tavole della Legge sul monte Sinai. Formella della Porta del Paradiso, Battistero di San Giovanni (Firenze), Il monte Sinai è il luogo in cui, secondo il Libro dell’Esodo, Mosè fu chiamato da Dio attraverso il rovo ardente (Es 3,1 e seguenti) e molti anni dopo ricevette le tavole della legge del decalogo (Es 19,1-3 e seguenti).
Chi ricevette le tavole della legge?
Mosè vi ricevette le Tavole della Legge – Cruciverba.
Quali sono gli atti impuri?
Una norma inscritta nel cuore – In genere ammettiamo come atti o desideri impuri comportamenti come avere rapporti sessuali prima del matrimonio, ricorrere alla masturbazione, visionare materiale pornografico o in generale compiere qualsiasi atto contro la castità.
Che cosa vuol dire non nominare il nome di Dio invano?
Per il catechismo significa soprattutto non nominare il nome di Dio senza rispetto e non bestemmiare. In realtà, nella sua formulazione più autentica, il comandamento biblico vieta di servirsi del nome del Signore per coprire forme di ingiustizia: dal giurare il falso alle giustificazioni dell’oppressione.
Su quale monte Dio detto i comandamenti a Mosè?
DECALOGO in “Enciclopedia Italiana” DECALOGO (dal gr. δέκα “dieci” e λόγος “discorso”) Leone Tondelli Serie di dieci precetti, prevalentemente morali, dati da Dio a Mosè sulla vetta del monte Sinai, all’uscire dall’Egitto. Fatto proprio dal cristianesimo, il decalogo è divenuto il codice morale di gran parte dell’umanità.
Secondo il racconto dell’ Esodo, XIX, arrivato il popolo alle falde del Sinai, Mosè salì alla vetta e vi udì da Dio le parole che dovevano consacrare per secoli Israele a una missione e posizione di privilegio: “Se voi ascoltate la mia voce e la mia alleanza, voi sarete mio popolo particolare fra tutti i popoli: perché tutta la terra è mia, ma voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” Es,, XIX, 5-6.
Come primo patto di quella alleanza Dio pose i comandi che siamo soliti designare col nome di decalogo ( Es,, XX, 2-17). I primi sono naturalmente d’ordine religioso. Jahvè è il solo Dio d’Israele: non solo è proibito il culto d’altri dei, ma altresì ogni raffigurazione della divinità.
Il testo a rigore sembra escludere anzi qualsiasi rappresentazione plastica a scopo di culto: ma il riconoscimento nella Legge stessa e nella tradizione religiosa ebraica delle figure dei Cherubini (v.) sull’Arca Santa e nel tempio di Salomone legittima l’interpretazione data, cioè che il divieto si restringa alle immagini della divinità.
Seguono i comandi di non nominare il nome di Dio invano (cioè non solo inutilmente, ma, secondo il testo ebraico, a scopo malvagio, come per es., per azioni magiche, per giuramenti falsi, ecc.) e quello della santificazione del sabato. Il sesto comandamento (nella numerazione corrente) ha la forma: “non commettere adulterio”; e il nono-decimo: “Non desiderare la casa del tuo prossimo: non desiderare né la moglie sua né il servo né l’ancella né il bue nè l’asino né qualsiasi cosa di lui” ( Es,, XX, 2-17).
- I comandamenti erano incisi su due tavole di pietra ( Es,, XXXI, 18).
- Avendole spezzate, mosso a sdegno dall’idolatria in cui il popolo era ricaduto nella sua breve assenza, Mosè ne portò sul Sinai altre due, sulle quali “Jahvè scrisse.
- Le parole dell’alleanza, le dieci parole” ( Es,, XXXIV, 28).
- Le due tavole furono depositate e conservate nell’Arca e andarono perdute in epoca ignota.
Il decalogo è ripetuto con leggiere varianti nel Deuteronomio V, 6-18. Alcuni critici come l’Ewald, il Kuenen, il Wellhausen, seguendo un’idea per la prima volta esposta dal Goethe, hanno trovato un’altra forma di decalogo, profondamente diversa, nei precetti dell’ Esodo, XXXIV, 10-26, sostenendo, almeno alcuni, che essa sarebbe anteriore all’altra divenuta corrente.
Parecchi precetti sono comuni; ma il primo comando d’adorare Jahvè solo come unico Dio è largamente sviluppato col preannuncio delle cose meravigliose che Dio avrebbe compiute per il suo popolo nella conquista della terra promessa e col comando di abbattere gli altari e i cippi dei popoli pagani che la occupavano e di non contrarre con questi alcuna parentela.
È ripetuto l’ordine di non fare “alcun dio di getto”: ma seguono ad esso delle prescrizioni rituali, relative ai giorni degli azzimi, all’offerta dei primogeniti a Dio, non solo degli uomini ma anche degli animali. Nel comando del riposo del sabato è specificato che non si deve lavorare neanche nella stagione dell’aratura e della mietitura.
È fatto obbligo di comparire tre volte all’anno alla presenza del Signore: e dopo altre prescrizioni rituali è formulato il precetto: “non cuocere il capretto nel latte di sua madre”. Quand’anche si riuscisse a distinguere la serie disordinata di queste prescrizioni nel numero di dieci (o dodici) precetti – cosa non facile – il suo contenuto appare come una ripetizione sviluppata a scopo parenetico dei precetti del primo decalogo, ampliata di altri costumi.
È difficile ammettere che se si voleva riassumere in dieci motti un codice da incidere su tavole di pietra e destinato all’uso mnemonico, vi si trovasse posto per tante particolareggiate prescrizioni. Anche nel decalogo dell’ Esodo, XX e del Deuteronomio la divisione dei precetti in dieci, non indicati in testo non è facile e non è stata sempre concorde.
- Che i comandamenti fossero calcolati a dieci è testimoniato dalla Bibbia stessa.
- Essi sono “le parole dell’alleanza, le dieci parole” ( Es,, XXXIV, 28: cfr.
- Deut,, IV, 13 e X, 4).
- La divisione attualmente in uso presso i cattolici risale a S.
- Agostino e fu resa universale dal Concilio di Trento.
- E seguita pure dai luterani.
Essa unisce in un precetto unico il comando d’avere un Dio solo e di non farne alcuna scultura o immagine (v.2 b ), tenuti distinti dalla tradizione talmudica ( Berakhoth I, n.8, trad. Schwab, Parigi 1871, p.18-19) e da Filone Alessandrino. Distingue invece il desiderio della donna del prossimo dal desiderio delle sue sostanze, seguendo il testo del Deuteronomio a preferenza di quello dell’Esodo.
Nell’Esodo infatti si comincia col proibire di desiderare “la casa” del prossimo, come un tutto di cui si specificano poscia le parti: la donna, il servo e l’ancella, il bue e l’asino e in genere quanto gli appartiene. Nel Deuteronomio invece si mette a parte e si antepone il comando di “non desiderare la donna” del prossimo, e si colloca in secondo ordine quello di non agognarne la roba.
Si noti per altro che nella versione greca dei LXX, che S. Agostino seguiva, il testo dell’Esodo è qui uniformato a quello del Deuteronomio. Valore del racconto delle origini del decalogo, – La critica che ha sottomesso a esame le origini del Pentateuco, non poteva non valutare la narrazione biblica delle origini del decalogo.
- Alcuni critici sono arrivati alla conclusione che il decalogo non possa, neanche sostanzialmente, risalire ad una data tanto remota quanto l’epoca mosaica.
- Fa difficoltà il concetto nitidamente spirituale di Dio e il monoteismo affermato come religione assoluta: due concetti che nello svolgimento della storia ebraica quale fu in grandi linee disegnato dalla scuola del Graf, dello Stade, del Wellhausen si dovrebbero piuttosto attribuire alla predicazione profetica che non alle prime origini della nazione ebrea.
La proibizione del culto di ogni scultura o immagine della divinità sembra in contrasto con varî dati dell’antica storia ebraica in cui sembrano in uso raffigurazioni divine, come i teraphim, il serpente di bronzo, forse anche l’ ephod e specialmente il culto di Jahvè sotto la forma di toro nel regno delle dieci tribù.
- La forma stessa letteraria risentirebbe dei documenti ritenuti più recenti nella costituzione del Pentateuco.
- Il Marti, il Beer, ultimamente il Mowinckel e il Meinhold ritardano quindi la composizione del decalogo sino a verso il principio dell’esilio babilonese, mentre lo Stade, il Meissner, il Wellhausen ed il Duhm lo ritengono più genericamente un prodotto delle concezioni etico-religiose del profetismo del sec.
VIII a.C. Molti altri però affermano il valore della tradizione, e assegnano la breve raccolta di comandamenti all’epoca mosaica, come H. Schmidt, o il nucleo fondamentale di esso, a parte alcune motivazioni dei precetti, a Mosè in persona: come D. Castelli, O.
- Meier, il Gunkel, il Gressmann, il Jirku, il Gampert.
- Altri, non meno numerosi, ritengono il decalogo tutto intero di Mosè: così il Lemme e il Koenig e la maggioranza degli studiosi cattolici, come il Hummelauer, il Crampon, l’Eberharter.
- Restringendoci per ora alle motivazioni dei precetti, richiama l’attenzione la divergenza fra le due recensioni dell’Esodo e del Deuteronomio.
Mentre nel primo l’osservanza del sabato è inculcata pel motivo che “benedisse il Signore il giorno del sabato e lo santificò”, il Deuteronomio, V, 15 accenna alla schiavitù d’Egitto ed alla prodigiosa liberazione da essa. È possibile quindi che alcune motivazioni si debbano ad amplificazioni successive parenetiche.
Non può però in alcun caso, a meno nell’Esodo, considerarsi come elemento secondario la proibizione di fare sculture e immagini della divinità, perché mancando nel testo dell’Esodo la possibilità di distinguere in due i precetti di non desiderare la donna e i beni del prossimo uniti nel concetto unico di casa, quella proibizione è indispensabile per avere il numero di dieci comandamenti.
D’altra parte l’importanza dominante che ha Mosè nella tradizione ebraica, tanto del Pentateuco quanto del profetismo (traccia del decalogo è già in Osea, XII, 10 e XIII, 4) non permette di escludere, per un concetto evoluzionistico e senza forti ragioni, che a lui risalga la fondamentale concezione ebraica.
Pur senza trattare delle origini del monoteismo ebraico, si può osservare che il carattere idolatrico dei teraphim e dell’ ephod è troppo incerto per potervi far sopra assegnamento: e che il culto di Jahvè sotto forma taurina è considerato da tutta la Bibbia come una degenerazione della pura religione nazionale.
Nel tempio di Salomone non c’è nessuna rappresentazione della divinità ed il monoteismo è già affermato nitidamente dal tempo dei Giudici nel canto indubitabilmente genuino di Debora. Manca anche ogni traccia d’una raffigurazione femminile paredra a Jahvè: ciò che è buona prova del carattere immateriale di questi, trascendente le comuni concezioni religiose.
Se si esamina d’altronde l’elenco degli autori delle diverse sentenze, si rileverà che sono per la negazione dell’origine mosaica del decalogo quegli studiosi che si sono andati specializzando nella critica letteraria delle fonti quale ha prevalso da mezzo secolo in Germania, mentre si mostrano favorevoli all’affermazione coloro i quali più particolarmente attendono allo studio diretto delle nuove fonti storiche, sempre in aumento, di monumenti e ricordi svariati dell’antico mondo orientale.
Tali il Gunkel, e specialmente il Jeremias ed il Jirku, i quali hanno raccolto espressamente in grande copia i paralleli alla Bibbia di fonti e documenti dell’antico Oriente. Tali documenti, in notevole parte di recente scoperti, vanno tenuti presenti.
- Effettivamente la morale dell’antica Caldea come quella dell’antico Egitto, messi per ora in disparte i comandamenti che riguardano la religione, presentano una specificazione di precetti similari molto più particolareggiata di quella mosaica.
- Il Jirku ha cercato di raccogliere i principali dettami di questo antichissimo codice morale, rappresentato nobilmente, per citare due sole fonti, dal Libro dei morti per l’Egitto e dal Lamento del giusto sofferente per la Caldea.
Egli mette in parallelo col decalogo anche quanto può mostrare un avvicinamento del mondo antico orientale all’idea monoteistica ebraica. Se i punti d’accordo sono di fatto insufficienti sotto questo rapporto, qualcosa si può aggiungere, ed è questo: che già nella Caldea, come ha mostrato il Dhorme ( La religion assyro – babylonienne, Parigi 1910, p.211 segg.) il codice morale comprendeva due grandi classi di precetti: i doveri verso la divinità, posti sempre in prima linea, e i doveri verso il prossimo.
Il dovere di non nominare il nome di Dio invano, o meglio come traducono il Baentsch, il Hummelauer, il Weiss, per qualche scopo malvagio, era naturalmente d’ogni religione. Così è confermata l’altissima antichità del sabato, non esclusivo del mondo ebraico, ma già noto in terra babilonese: di modo che rimane caratteristica del decalogo solo l’affermazione assoluta dell’unità divina e la proibizione di ogni scultura.
Nuovi elementi monumentali presentano buoni paralleli anche per la forma esteriore del decalogo e per particolari biblici a suo riguardo. Se il Castelli, seguendo il Reuss ( L’histoire sainte et la loi, II, p.66) si preoccupava della superficie sproporzionatamente estesa che avrebbe occupato il decalogo, comprese le motivazioni dei precetti, nella scrittura cuneiforme, e del peso esagerato per il suo comodo trasporto nell’Arca, il Jeremias pone ora a raffronto le due tavole del destino poste al collo della divinità in alcune sculture babilonesi.
- Il Castelli era soprattutto lontano dall’immaginare che dopo pochi anni sarebbe stato trovato inciso su un unico blocco, occupato nella parte anteriore per grandissima parte dall’immagine della divinità che detta le leggi al re, un codice intero e minuzioso come quello di Hammurabi.
- Non solo il decalogo, ma anche il codice antichissimo detto dell’alleanza ( Es,, XXI-XXIII), poteva essere scritto su una pietra, come infatti hanno congetturato alcuni.
D’altra parte, anche d’origine assira e hittita abbiamo ora codici o tracce di codici il cui raffronto col codice mosaico è interessantissimo per manifestarci la remota età di costumi e di disposizioni legali. I documenti hittiti di Boğazköy ultimamente scoperti hanno a loro volta fornito illustrazione sul dato biblico della conservazione nell’arca delle due tavole su cui era scritto il decalogo.
- In alcuni testi biblici l’arca è presentata come lo sgabello di Dio che si asside sui Cherubini.
- Ora in un documento trovato a Boğazköy abbiamo che il testo d’un trattato d’alleanza fra Ramses II e un principe hittita viene deposto nel paese di Khatti sotto i piedi del dio Tešub, come la sua contropartita in Egitto sotto i piedi del dio Sole.
L’analogia delle tavole del decalogo ideato come un patto tra Jahvè e il suo popolo, poste nell’arca sotto i piedi della divinità invisibile, fu già percepita dal Jirku e dal Torczyner ed è infatti impressionante. Il P. Dhorme ha preannunciato che ne moltiplicherà gli esempî semitici ( Rev,
- Biblique, 1926, p.485, n.2).
- Scritto nei secoli XIV o XV a.C.
- Come riassunto solennemente inciso nella pietra di idee religiose e morali e depositato sotto i piedi della divinità come supremo patto nazionale, quand’anche qualche particolare nelle motivazioni dei comandamenti si dovesse ad amplificazioni posteriori, il decalogo contiene concetti che emergono da quelli dell’ambiente contemporaneo.
L’unità di Dio in un mondo universalmente politeistico: l’esclusione d’una divinità femminile che potesse portare un dualismo nella divinità: il divieto d’ogni raffigurazione di Dio immateriale ed anche della pronunzia irriverente del suo nome: la severità del riposo sabbatico esteso ai servi e persino ai giumenti sono elementi che avranno nel lontano futuro un’influenza religiosa amplissima.
- Il campo dei precetti strettamente morali è più accessibile ed ovvio.
- Ma nella loro laconicità sono indice sicuro di elevate concezioni morali la proibizione espressa non solo dell’adulterio e del furto ma anche del desiderare con bramosia la donna e la roba del prossimo.
- Né va dimenticato il fatto che Dio vi è presentato come il legislatore e il giudice supremo della condotta dell’uomo.
Menzioni esplicite d’uno studio particolare del decalogo presso gli antichi Ebrei ci difettano: non solo le due tavole di pietra, che la tradizione biblica afferma sostituite da Mosè stesso alle prime, andarono perdute, ma andò perduta anche l’arca in cui erano conservate.
- I profeti ebraici, a cominciare dai primi, Amos e Osea, svilupparono largamente e con intenso sentimento religioso e morale quei concetti.
- Il decalogo e il cristianesimo,
- Gesù Cristo nel Vangelo intende dare, se non una legge nuova, un nuovo spirito e un’interpretazione più perfetta alla religione e alla morale ebraica.
Neanche uno iota della legge mosaica cadrà, ma egli sostituisce all’aridità di precetti schematici lo slancio dell’amore e della generosità verso Dio e il prossimo, la vittoria sull’avidità delle ricchezze, dei piaceri e degli onori. È una via ( halaka ) che non è quella insegnata dalla tradizione rabbinica a fedele o sofistico commento della legge mosaica: ma cerca qualche cosa di superiore e interiore.
- Libero dai vincoli delle forme antiche, il nuovo spirito della religione e della morale che s’accentra nei due precetti dell’amore di Dio sopra tutte le cose e dell’amore del prossimo come noi stessi, prende aspetto esteriore di legge per la decisione delle affermazioni anche quando legge non è.
- Ne venne che il cristianesimo primitivo, e di tutti i tre primi secoli: non insisté ad insegnare il decalogo né ad esso si riferì, ma insegnò invece “la via del Signore”.
La Didachè è basata sul concetto delle due vie, e se ne possono trovare i primi accenni in S. Paolo stesso. Se si continua a leggere l’A.T., nelle comunità nuove esso non basta più: anzi la nuova sapienza, il nuovo spirito è dato dalla lettura del Vangelo.
La novità delle concezioni morali di Gesù Cristo influì decisamente sull’idea di S. Paolo circa i rapporti della legge mosaica col nuovo sistema religioso. Lo gnosticismo a sua volta, sino alle idee nettissime di Marcione e di Mani, forzando le idee del Vangelo e di S. Paolo, non solo ripudiò la legge mosaica, ma tutto l’Antico Testamento considerò come opera di un demiurgo, se non addirittura d’uno spirito malvagio.
Il decalogo viene rimesso in valore come formulario dei doveri umani da S. Agostino, e non è improbabile che tale rivalutazione sia da lui intenzionalmente diretta contro le tesi manichee. Nel Medioevo, a partire dal sec. IX, i dieci comandamenti (v.) prendono posto in diversi luoghi nel programma di catechismo destinato all’istruzione dei fanciulli o a quello dei fedeli.
Un decalogo in lingua anglosassone viene premesso alle Leges del re Alfredo il Grande che salì sul trono nell’anno 871; e si conosce anche un’altra antichissima versione sassone. Troviamo ancora nel Medioevo lo studio dottrinale del decalogo. È specialmente esaminato il rapporto del decalogo con la legge morale naturale.S.
Tommaso d’Aquino insegna che tutti i precetti appartengono alla legge di natura, tranne il terzo, che ha un fondamento di natura in quanto prescrive un tempo per onorare Dio, ma è di diritto positivo nella sua determinazione. Secondo Duns Scoto invece i comandamenti della seconda tavola non appartengono alla legge naturale.
Egli ne adduce in prova le dispense datene talvolta da Dio nell’Antico Testamento: essi hanno soltanto una grandissima conformità coi suoi principî invariabili, derivando però la loro obbligazione dal comando positivo divino. I teologi posteriori al sec. XIV tennero quasi unanimemente il pensiero e il linguaggio di S.
Tommaso. La questione fu ripresa al sorgere del protestantesimo. Fu rimessa in discussione la legittimità del culto delle immagini sacre, attenendosi i Riformati a un’interpretazione rigorosa del decalogo. I Sociniani sostennero invece che il decalogo era stato sostituito e abolito dal Vangelo.
- Protestanti più recenti, come J.D.
- Michaelis e altri, sostennero che il decalogo deve considerarsi come una legge ebraica civile e non morale.
- La Chiesa cattolica condannò nel concilio di Trento (Sess. IV, can.
- XIX) quelli che negano che i comandamenti siano obbligatorî per i cristiani.
- Nel suo insegnamento catechistico però abbreviò la forma del decalogo mosaico: omise il divieto di fare immagini o sculture della divinità per reazione alle teorie iconoclastiche e alle accuse dei Riformatori del sec.
XVI, dichiarando essere ormai talmente limpida nel cristianesimo l’idea della spiritualità divina da non potersi nemmeno prendere in considerazione il pericolo d’idolatria che era la ragione del divieto. Furono pure omesse nell’insegnamento le motivazioni aggiunte ad alcuni comandamenti e la specificazione della “roba” del prossimo, fra cui erano inclusi “servi e serve”.
Modificò dal tempo apostolico il giorno festivo dal sabato alla domenica: ampliò la proibizione dell’adulterio nella proibizione della “fornicazione”, ed ultimamente in quella di non commettere “atti impuri” per includervi gli atti disonesti individuali. Nell’interpretazione dei comandamenti insegna che occorre tener calcolo non solo di ciò che ciascuno di essi proibisce, ma di quello altresì che implicitamente impone: e accanto alla formula dei dieci comandamenti ha collocato l’altra formula evangelica dei “due precetti della carità”, dell’amor di Dio e del prossimo, come riassuntivi di tutta la legge.
La morale cioè non è tutta compresa nel decalogo, ma esso stesso è illuminato dalla luce del Vangelo, come nei primi tempi del cristianesimo. Un confronto quindi, rinnovato spesso, della morale cattolica con la morale delle altre religioni o di scuole filosofiche non può prendere a base di tutto il pensiero cristiano il decalogo.
- Il decalogo può invece, collocato nel suo ambiente storico, esser posto a confronto con le idee e con le leggi che si possono largamente considerare contemporanee.
- Il cattolicesimo, pur rigettando ogni forma gnostica e dualistica che ripudiasse l’A.T., sostenne e sostiene che Gesù “perfezionò” le sue leggi morali.
È questa del resto l’idea del Vangelo e di S. Paolo e il fondamento delle modificazioni introdotte nel testo originario del decalogo. Bibl,: L. Lemme, Die religionsgeschichtliche Bedeutung des Dekalogs, Breslavia 1880; B. Baentsch, Das Bundesbuch, Halle 1892; M.
Meinhold, Der Dekalog, Giessen 1927; L. Mowinckel, Le Décalogue, Parigi 1927; A. Eberharter, Der Dekalog, Münster 1929; sul papiro Nash, v. Rev. Biblique, aprile 1904, pp.242-250 e N. Peters, Die älteste Abschrift der zehn Gebote, der Papirus Nash, untersucht, Friburgo in B.1905. Si possono altresì consultare i commenti all’Esodo e al Deuteronomio e gli studî di teologia dell’A.T.
Per i documenti paralleli d’altri popoli orientali si consultino A. Jeremias, Das Alte Testament im Lichte des alten Orients, 3ª ed., Lipsia 1916 e A. Jirku, Altorientalischer Kommentar zum Alten Testament, Lipsia 1923 che citano anche studî speciali su di essi.
- Sul decalogo nel cristianesimo cfr.C.
- Achelis, Der Dekalog als katechetisches Lehrbuch, Giessen 1905; P.
- Göbl, Geschichte der Katechese im Abendlande vom Verfalle des Katechumenas bis zum Ende des Mittelalters, Kempten 1880.
- Sulle idee patristiche e della scolastica medievale e successiva cfr.
- Lo studio di E.
Dublanchy, in Dictionnaire de Théologie catholique, IV (1924), coll.164-176. : DECALOGO in “Enciclopedia Italiana”
Qual è il significato del nono comandamento?
Catechismo della Chiesa Cattolica – Il nono comandamento
- PARTE TERZA LA VITA IN CRISTO
- SEZIONE SECONDA I DIECI COMANDAMENTI
- CAPITOLO SECONDO«AMERAI IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO»
- ARTICOLO 9 IL NONO COMANDAMENTO
« Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo » ( Es 20,17). « Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore » ( Mt 5,28).2514 San Giovanni distingue tre tipi di smodato desiderio o concupiscenza: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita.388 Secondo la tradizione catechistica cattolica, il nono comandamento proibisce la concupiscenza carnale; il decimo la concupiscenza dei beni altrui.2515 La « concupiscenza », nel senso etimologico, può designare ogni forma veemente di desiderio umano.
La teologia cristiana ha dato a questa parola il significato specifico di moto dell’appetito sensibile che si oppone ai dettami della ragione umana. L’Apostolo san Paolo la identifica con l’opposizione della « carne » allo « spirito ».389 È conseguenza della disobbedienza del primo peccato.390 Ingenera disordine nelle facoltà morali dell’uomo e, senza essere in se stessa una colpa, inclina l’uomo a commettere il peccato.391 2516 Già nell’uomo, essendo un essere composto, spirito e corpo, esiste una certa tensione, si svolge una certa lotta di tendenze tra lo « spirito » e la « carne ».
Ma essa di fatto appartiene all’eredità del peccato, ne è una conseguenza e, al tempo stesso, una conferma. Fa parte dell’esperienza quotidiana del combattimento spirituale: « Per l’Apostolo non si tratta di discriminare e di condannare il corpo, che con l’anima spirituale costituisce la natura dell’uomo e la sua soggettività personale; egli si occupa invece delle opere, o meglio delle stabili disposizioni – virtù e vizi – moralmente buone o cattive, che sono frutto di sottomissione (nel primo caso) oppure di resistenza (nel secondo) all’azione salvifica dello Spirito Santo,
- Perciò l’Apostolo scrive: “Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” ( Gal 5,25) ».392 2517 Il cuore è la sede della personalità morale: « Dal cuore provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni » ( Mt 15,19).
- La lotta contro la concupiscenza carnale passa attraverso la purificazione del cuore e la pratica della temperanza: « Conservati nella semplicità, nell’innocenza, e sarai come i bambini, i quali non conoscono il male che devasta la vita degli uomini ».393 2518 La sesta beatitudine proclama: « Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio » ( Mt 5,8).
I « puri di cuore » sono coloro che hanno accordato la propria intelligenza e la propria volontà alle esigenze della santità di Dio, in tre ambiti soprattutto: la carità, 394 la castità o rettitudine sessuale, 395 l’amore della verità e l’ortodossia della fede.396 C’è un legame tra la purezza del cuore, del corpo e della fede: I fedeli devono credere gli articoli del Simbolo, « affinché credendo, obbediscano a Dio; obbedendo, vivano onestamente; vivendo onestamente, purifichino il loro cuore, e purificando il loro cuore, comprendano quanto credono ».397 2519 Ai « puri di cuore » è promesso che vedranno Dio faccia a faccia e che saranno simili a lui.398 La purezza del cuore è la condizione preliminare per la visione.
Fin d’ora essa ci permette di vedere secondo Dio, di accogliere l’altro come un « prossimo »; ci consente di percepire il corpo umano, il nostro e quello del prossimo, come un tempio dello Spirito Santo, una manifestazione della bellezza divina.2520 Il Battesimo conferisce a colui che lo riceve la grazia della purificazione da tutti i peccati.
Ma il battezzato deve continuare a lottare contro la concupiscenza della carne e i desideri disordinati. Con la grazia di Dio giunge alla purezza del cuore:
- — mediante la virtù e il dono della castità, perché la castità permette di amare con un cuore retto e indiviso;
- — mediante la purezza d’intenzione che consiste nel tenere sempre presente il vero fine dell’uomo: con un occhio semplice, il battez zato cerca di trovare e di compiere in tutto la volontà di Dio; 399
- — mediante la purezza dello sguardo, esteriore ed interiore; mediante la disciplina dei sentimenti e dell’immaginazione; mediante il rifiuto di ogni compiacenza nei pensieri impuri, che inducono ad allontanarsi dalla via dei divini comandamenti: « La vista pro voca negli stolti il desiderio » ( Sap 15,5);
- — mediante la preghiera :
« Pensavo che la continenza si ottenesse con le proprie forze e delle mie non ero sicuro. A tal segno ero stolto da ignorare che nessuno può essere continente, se tu non lo concedi. E tu l’avresti concesso, se avessi bussato alle tue orecchie col gemito del mio cuore e lanciato in te la mia pena con fede salda ».400 2521 La purezza esige il pudore,
- Esso è una parte integrante della temperanza.
- Il pudore preserva l’intimità della persona.
- Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto.
- È ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza.
- Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e della loro unione.2522 Il pudore custodisce il mistero delle persone e del loro amore.
Suggerisce la pazienza e la moderazione nella relazione amorosa; richiede che siano rispettate le condizioni del dono e dell’impegno definitivo dell’uomo e della donna tra loro. Il pudore è modestia. Ispira la scelta dell’abbigliamento. Conserva il silenzio o il riserbo là dove traspare il rischio di una curiosità morbosa.
Diventa discrezione.2523 Esiste non soltanto un pudore dei sentimenti, ma anche del corpo. Insorge, per esempio, contro l’esposizione del corpo umano in funzione di una curiosità morbosa in certe pubblicità, o contro la sollecitazione di certi mass-media a spingersi troppo in là nella rivelazione di confidenze intime.
Il pudore detta un modo di vivere che consente di resistere alle suggestioni della moda e alle pressioni delle ideologie dominanti.2524 Le forme che il pudore assume variano da una cultura all’altra. Dovunque, tuttavia, esso appare come il presentimento di una dignità spirituale propria dell’uomo.
- Nasce con il risveglio della coscienza del soggetto.
- Insegnare il pudore ai fanciulli e agli adolescenti è risvegliare in essi il rispetto della persona umana.2525 La purezza cristiana richiede una purificazione dell’ambiente sociale,
- Esige dai mezzi di comunicazione sociale un’informazione attenta al rispetto e alla moderazione.
La purezza del cuore libera dal diffuso erotismo e tiene lontani dagli spettacoli che favoriscono la curiosità morbosa e l’illusione.2526 La cosiddetta permissività dei costumi si basa su una erronea concezione della libertà umana. La libertà, per costruirsi, ha bisogno di lasciarsi educare preliminarmente dalla legge morale.
È necessario chiedere ai responsabili dell’educazione di impartire alla gioventù un insegnamento rispettoso della verità, delle qualità del cuore e della dignità morale e spirituale dell’uomo.2527 « La Buona Novella di Cristo rinnova continuamente la vita e la cultura dell’uomo decaduto, combatte e rimuove gli errori e i mali derivanti dalla sempre minacciosa seduzione del peccato.
Continuamente purifica ed eleva la moralità dei popoli. Con la ricchezza soprannaturale, feconda come dall’interno, fortifica, completa e restaura in Cristo le qualità dello spirito e le doti di ciascun popolo e di ogni età ».401
- 2528 « Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore » ( Mt 5,28),
- 2529 Il nono comandamento mette in guardia dal desiderio smodato o concupiscenza carnale.
- 2530 La lotta contro la concupiscenza carnale passa attraverso la purificazione del cuore e la pratica della temperanza.
- 2531 La purezza del cuore ci farà vedere Dio: fin d’ora ci consente di vedere ogni cosa secondo Dio.
- 2532 La purificazione del cuore esige la preghiera, la pratica della castità, la purezza dell’intenzione e dello sguardo.
2533 La purezza del cuore richiede il pudore, che è pazienza, modestia e discrezione. Il pudore custodisce l’intimità della persona. (388) Cf 1 Gv 2,16. (389) Cf Gal 5,16.17.24; Ef 2,3. (390) Cf Gn 3,11. (391) Cf Concilio di Trento, Sess.5a, Decretum de peccato originali, canone 5: DS 1515. (392) Giovanni Paolo II, Lett. enc. Dominum et vivificantem, 55: AAS 78 (1986) 877-878.
- (393) Erma, Pastor 27, 1 ( mandatum 2, 1): SC 53, 146 (Funk 1, 70).
- (394) Cf 1 Ts 4,3-9; 2 Tm 2,22.
- (395) Cf 1 Ts 4,7; Col 3,5; Ef 4,19.
- (396) Cf Tt 1,15; 1 Tm 1,3-4; 2 Tm 2,23-26.
- (397) Sant’Agostino, De fide et Symbolo, 10, 25: CSEL 25, 32 (PL 40, 196).
- (398) Cf 1 Cor 13,12; 1 Gv 3,2.
- (399) Cf Rm 12,2; Col 1,10.
- (400) Sant’Agostino, Confessiones, 6, 11, 20: CCL 27, 87 (PL 32, 729-730).
(401) Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 58: AAS 58 (1966) 1079. : Catechismo della Chiesa Cattolica – Il nono comandamento
Qual è il comandamento più importante?
Versione di Matteo – Nella versione di Matteo, il comandamento viene dato da Gesù come risposta ad una domanda, posta da un dottore della legge, su quale sia il comandamento più grande.
« Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Ama il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti » ( Mt 22,37-40, su laparola.net,) |
Chi ha scritto i comandamenti?
I Dieci Comandamenti, o Decalogo, sono delle Leggi scritte da Dio su due Tavole che secondo la Bibbia furono date a Mosè. Queste leggi sono ancora dei principi da seguire secondo gli Italiani? – Sì, quasi tutti i 10 Comandamenti sono ritenuti dei principi importanti da seguire dalla maggior parte degli italiani.
- C’è però qualche differenza tra il percepito dei Cattolici e di chi non si ritiene appartenente a nessuna religione.
- Non uccidere e non rubare sono i due Comandamenti che tutte le persone ritengono principi imprescindibili.
- Anche per quanto riguarda il mentire ( non dire falsa testimonianza ), lo stesso numero di Cattolici e di Atei è d’accordo, ovvero circa 8 persone su 10.
Tutti gli altri 7 Comandamenti sono considerati più importanti dagli italiani che si identificano come Cattolici, rispetto a coloro che si ritengono Atei, Tra Cattolici e Atei, i Comandamenti con la differenza di percepito maggiore sono: non imprecare, essere monoteisti, non commettere atti impuri e santificare le feste.
Come si Manifesto Dio a Mosè?
Narrazione biblica – Mosè e il roveto ardente, c.1450–1475, attribuito a Dieric Bouts, Nella narrazione si dice che un angelo del Signore apparve sul roveto, e come Yahweh, in seguito, si rivolgesse a Mosè, con voce proveniente dal roveto, mentre questi pascolava il gregge di Jetro,
Quando Mosè iniziò ad avvicinarsi, Dio gli disse di togliersi i calzari, poiché stava calpestando una terra santa, e Mosè si nascose la faccia tra le mani. Alcuni studiosi dell’ Antico Testamento considerano il racconto del roveto ardente come congiunzione tra i testi jahvisti e eloisti, con l’Angelo di Yahweh e la rimozione dei sandali facenti parte della tradizione jahvista e il parallelo eloista con il fatto che era Dio e il nascondersi il volto da parte di Mosè.
Quando viene sfidato sulla sua identità, Yahweh risponde ” Io sono colui che sono ” ossia Yahweh, Il testo fa derivare Yahweh (in ebraico : יהוה ? ) dal verbo ebraico hayah (in ebraico : היה ? ) che significa essere, Nella sua risposta, Dio prosegue che è il Dio dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe,
Il testo ritrae Yahweh come colui che dice a Mosè che lo sta mandando dal Faraone per portare gli israeliti fuori dall’Egitto, un’azione che Yahweh descrive come se avesse notato che questi erano oppressi dagli egiziani. Yahweh dice a Mosè di dire agli anziani degli israeliti che Yahweh li avrebbe condotti nella terra dei Cananei, Ittiti, Amorrei, Iviti e Gebusei, una regione generalmente indicata nel suo insieme con il termine “Cananea”, descritta come una terra di “latte e miele”.
Secondo la narrazione, Yahweh ordinò a Mosè di confrontarsi con gli egiziani e gli israeliti e lo informò su ciò che sarebbe accaduto e poi compì diversi miracoli dimostrativi per rafforzare la credibilità di Mosè. Tra le altre cose il bastone di Mosè venne trasformato in un serpente, la mano di Mosè divenne temporaneamente segnata dalla lebbra, e l’acqua fu trasformata in sangue. Una pietra granitica proveniente dall’area del monte Sinai mostra ciò che sembra essere una rappresentazione di un cespuglio, creata naturalmente da una concentrazione di ossido di manganese che si cristallizza in questa forma nella roccia. Mosè è descritto come molto riluttante ad assumere l’incarico, sostenendo che gli mancasse l’eloquenza e per questo dovesse essere inviato qualcun altro.
- Nel testo, Yahweh reagì rabbiosamente rimproverando Mosè per la presunzione di tenere una conferenza a Colui che aveva detto chi era qualificato per parlare o non.
- Eppure Yahweh concesse e permise ad Aronne di essere inviato ad aiutare Mosè, poiché egli era eloquente e stava già andando ad incontrare Mosè.
Questa è la prima volta nella Torah che Aronne viene menzionato, e qui viene descritto come il portavoce di Mosè.
Cosa vuol dire Sinai?
SINAI in “Enciclopedia Italiana” SINAI (o Arabia Petrea; A.T., 115)
Giuseppe STEFANINI Giuseppe RICCIOTTI Giorgio LEVI DELLA VIDA
Vasta penisola di forma triangolare, posta tra l’Asia e l’Africa, lunga da Rās Moḥammed all’estremità orientale della Sabkhet el-Bardawīl 400 km. circa e larga circa 210 km., facente parte politicamente dell’Egitto e delimitata a N. dal Mediterraneo, a SO.
Dal Golfo di Suez, a SE. dal Golfo di el-‛Aqabah, ambedue dipendenti dal Mar Rosso. A ponente la penisola si salda all’Africa, dalla quale la separa il Canale di Suez costruito, come si sa, in modo da congiungere una serie di depressioni naturali: la laguna el-Manzalah, i laghi el-Ballāḥ ed et-Timsāḥ, i Laghi amari.
Sul canale esistono tre centri importanti, tutti dalla parte egiziana: Porto Said, Ismailia e Suez; un quarto punto notevole è el-Qánṭarah, dove il canale è scavalcato da un ponte e dalla ferrovia. A levante la Penisola del Sinai si salda all’Asia: il limite segue una linea quasi retta dalle vicinanze di el-‛Aqabah, press’a poco al fondo del golfo omonimo, fino alla località di Rafaḥ sul Mediterraneo, e costituisce, per l’accordo del 1906, il confine politico tra l’Egitto e la Palestina.
Il nome, – La penisola deve il suo nome al gruppo montagnoso del Sinai (ebraico Sīnai ; gr. Συνᾶ; arabo Ṭūr Sīnā ), che sorge nella parte meridionale di essa. Nella Bibbia questo monte (per la questione se il Sinai della Bibbia vada identificato col gruppo montuoso che oggi porta questo nome, v. appresso) è chiamato anche Oreb e i due termini appaiono quasi sempre come perfettamente sinonimi.
E probabile che il nome vero del gruppo montagnoso sia Oreb, ma non è altrettanto probabile l’opinione di alcuni che Sinai sia un appellativo sorto dal fatto che in quella zona ricevesse un culto speciale il dio lunare Sin: la Bibbia chiama anche “deserto di Sin ” ( Esodo, XVI, 1; Num,, XXXIII, 11) il settore da Elim in giù verso il Sinai.
Qualche studioso recente ha pensato di derivare l’appellativo Sinai dall’ebraico sĕneh “roveto”, riferendosi all’episodio in cui Dio appare a Mosè nel roveto ardente ( Esodo, III, 2 segg.); ma l’opinione non ha trovato seguito, poiché dal racconto biblico appare chiaramente che l’appellativo era assai più antico di quell’episodio.
Il nome rimane pertanto di etimologia oscura. Geologia e morfologia, – Geologicamente, il Sinai, al pari della Palestina e dell’Arabia, cui è strettamente connesso, fa parte del tavolato africano e del massiccio cristallino dell’Etbāi, smembrato in epoca non molto remota dai grandi sprofondamenti tettonici che diedero origine alla depressione del Mar Morto, al Golfo di el-‛Aqabah e al Mar Rosso, mentre il Golfo di Suez pare serbi nel suo fondo le tracce di un’origine valliva.
- Il nucleo di terreni più antichi affiora lungo la costa occidentale del Golfo di el-‛Aqabah e nella parte centro-meridionale della penisola, e culmina nelle montagne granitiche del Gebel Kātherīn (m.2602) del Gebel Umm Shōmer (m.2575) e del Gebel Mūsā – o monte di Mosè (m.2244).
- Su questo nucleo cristallino si adagiano le rocce sedimentarie: sono anzitutto delle arenarie, che nella loro parte inferiore contengono intercalazioni fossilifere del Carbonico, mentre più in alto assumono, verso sud, il carattere delle arenarie nubiane (v.
egitto : Geologia) e debbono così essere attribuite a varie età del Mesozoico, fino a includere una parte del Cretacico. Verso N. invece i varî piani del Giurassico e della Creta inferiore sono rappresentate da formazioni marine fossilifere (Gebel el-Maghārah, m.735); piegate in anticlinali.
Il Cretacico superiore è dappertutto costituito da calcari marini; questi formano il grande tavolato centrale (Bādiy et-Tīh) che spinge la sua fronte meridionale (Geb. et-Tīh, Geb. el-‛Oǵmā, m.1225) contro ai fianchi del massiccio cristallino, e di qui digrada verso N., sormontato in parte (Gebel Baḍī‛, m.1076; Gebel er-Rāḥah) da formazioni eoceniche e mioceniche, calcaree, e attraversato in qualche punto da rocce eruttive.
Più a N. ancora queste formazioni mesozoiche e cenozoiche scompaiono sotto una coltre sabbiosa desertica, ondulata in un infinito mare di dune, che dànno luogo alla loro volta a una fascia litoranea. Mentre le due costiere del Golfo di el-‛Aqabah e del Golfo di Suez sono a picco, orlate alla base da una fascia di depositi pliocenici coralligeni e corrono quasi rettilinee, il litorale mediterraneo, fra Porto Said e Rafaḥ è basso e sabbioso e forma prima una larghissima insenatura la Baia di eṭ-Ṭīnah in corrispondenza dell’antico ramo nilotico di Pelusium, poi una prominenza, la cosiddetta Penisola di Bardawīl, orlata da un esile cordone litorale, che sottende la vasta laguna omonima (Lago Sirbonico) e finalmente, a oriente di quella, forma un’altra debole insenatura, presso al limite indeciso della quale, allo sbocco del wādī omonimo, è la città di el-‛Arīsh, a breve distanza dal confine palestinese.
Idrografia, – Il reticolato idrografico apparisce molto complesso. Lo spartiacque tra il bacino mediterraneo e quello eritreo si spinge fino al 29° parallelo col Gebel et-Tīh e di qui corre lungo il ciglio del tavolato calcareo cretaceo ed eocenico, o presso di esso, e quindi quasi parallelamente alle coste SE.
e SO. Un piccolo lembo della regione è drenato verso il Mar Morto per il wādī el-Gerāfī. La parte centrale della penisola rimane così tributaria del Mediterraneo per mezzo dell’importantissimo wādī el-‛Arīsh; questo ha inizio appunto dall’et-Tīh, corre fino all’oasi di Nakhl, e ricevuti molti affluenti, tra cui principali wādī el-Barūk da sinistra e i wādī el-‛Aqābah, el-Qurayyah ed el-Mehashsham da destra, finisce col metter foce in mare appunto a el-‛Arīsh.
- Però questo grosso sistema idrografico, al pari dei minori sistemi marginali, tributarî del golfo di Suez, come i wādī Sadr, Ba‛ba‛ah, el-Ḥomr, es-Sidrah, al cui bacino appartiene il wādī el-Mukattab o valle coperta di scritture (cosiddetta per i numerosi graffiti sui quali v.
- Più avanti), ecc., o del golfo di el-‛Aqabah, come il wādī en-Naṣb, che è alimentato dal Gebel Kātherīn e sfocia presso Dahab, o come il wādī el-Keid, non è rappresentato che da torrenti temporanei, attivi solo qualche giorno dell’anno, e spesso senza continuità, talché le loro acque si perdono senza raggiungere il mare.
Ciò specie nella parte NO che è un vero e proprio deserto sabbioso e nella Piana di el-Qā‛ah presso eṭ-Ṭōr, fra il massiccio cristallino e la costa del Mar Rosso, pure colma di sabbia derivante dalle arenarie nubiane. Il tavolato interno calcareo ha piuttosto il carattere di deserto pietroso o meglio di steppa arida, con qua e là magri cespugli che permettono un po’ di pascolo, e nel fondo dei wādī tamerici e acacie: quivi si concentrano generalmente anche le culture arboree (palma da dattero, mandorlo, melagrano, albicocco, olivo, fico, carrubo) associate a cereali (orzo, grano, dura) a fagioli, zucche, un po’ di tabacco, ecc.
- Le oasi principali sono quella di Feirān a ovest e quella di Nakhl al centro.
- Feirān sarebbe la Raphidim dell’ Esodo,
- Il massiccio cristallino del Sinai propriamente detto ha invece ricche sorgenti perenni, le cui acque si perdono poi più a valle, ed è coperto di lussureggiante vegetazione, né mancano quivi piccole coltivazioni, disposte in terrazze e artificialmente irrigate.
Ciò è naturalmente in rapporto con le precipitazioni, la cui entità varia soprattutto con l’altitudine. Clima, – In complesso il clima può definirsi temperato o caldo e arido, assai salubre. Le piogge sono invernali: sulle montagne del sud abbondanti e accompagnate da neve, da venti freddi, da ghiaccio, da temporali; sui tavolati, nei poggi e nel cosiddetto Deserto dell’Istmo, come pure nelle zone litorali del Golfo di Suez e del Golfo di el-‛Aqabah le precipitazioni sono rare, scarse, saltuarie, sebbene in qualche caso eccezionalmente abbondanti e tali da generare improvvise piene nei torrenti.
- Flora, – Dal punto di vista floristico la Penisola del Sinai si riconnette alla regione mediterranea; la parte montagnosa specialmente ha copiosi elementi di questa provenienza (cipresso, pino, ecc.).
- La fauna è piuttosto povera e non molto varia, gli Uccelli scarseggiano, abbondano invece i Rettili, tra i Mammiferi si contano gazzelle, lepri, conigli e in montagna, uno stambecco; rari, all’infuori dello sciacallo e della iena, i grossi Carnivori; si allevano cammelli, pecore e capre.
Condizioni economiche, – I principali prodotti sono quelli della pastorizia e della scarsa agricoltura: tra i minerali sono segnalati estesi depositi di ferro e manganese nei calcari carbonici di Umm Bogma, di Gebel Umm Rinnah, ecc.; nella regione occidentale giacimenti cupriferi; nella parte orientale del massiccio sinaitico, verso il Golfo di el-‛Aqabah, giacimenti di turchesi, ormai generalmente esauriti.
- Tracce d’idrocarburi furono segnalate con perforazioni profonde in varî punti della regione occidentale (specialmente a Tanea) e a varî livelli, specialmente nell’Eocene medio e superiore, e al contatto fra il Cretacico medio e le arenarie nubiane.
- Etnografia,
- Par certo che fin dal tempo della prima occupazione semitica della regione siro-palestinese anche la Penisola Sinaitica sia stata abitata da stirpi semitiche.
La natura montuosa e impervia, l’estensione di zone desertiche pietrose e la povertà di pascoli devono tuttavia avere ostacolato lo sviluppo di una civiltà sedentaria: la penetrazione egiziana nel Sinai, che è segnalata fin dal principio della III dinastia (principio del IV millennio a.C.), deve aver avuto per unico scopo il possesso e lo sfruttamento delle miniere di rame e di turchesi che si trovano in varie località della penisola, e specialmente nel wādī al-Maghārah (“wādī della caverna”), che deve appunto il suo nome attuale alla presenza di antichissimi avanzi di gallerie minerarie.
- Il Sinai è abitato oggi da genti arabe, nomadi o seminomadi, tutti pastori e carovanieri, secondariamente agricoltori.
- Divisione amministrativa, centri abitati,
- Il governatorato del Sinai è diviso in tre distretti: el-‛Arīsh, Nakhl e eṭ-Ṭōr.
- L’unico Centro abitato che assuma qualche maggiore importanza è però el-‛Arīsh, allo sbocco del wādī omonimo nel Mediterraneo, in grazia della sua situazione presso la frontiera palestinese, sulla ferrovia che collega il Cairo con Gerusalemme.
Nakhl, posta al centro in un’oasi, sulla strada tradizionale dei pellegrini diretti ai luoghi santi dell’Islām, è più che altro un caravanserraglio e una stazione militare; eṭ-Ṭōr sulla costa occidentale è un porticciolo con un ciuffo di palme, ma ha grandissima importanza per il lazzaretto o stazione di quarantena di carattere internazionale, stabilito colà dal governo egiziano per i pellegrini che ritornano dalla Mecca.V.
- Tavv. CLVII e CLVIII.
- I l S inai nell ‘A ntico T estamento,
- La Bibbia ( Esodo, XIX, 1; Numeri, X, 11) ricorda che gli Ebrei, tre mesi dopo la loro uscita dall’Egitto, giunsero a un monte chiamato Sinai (detto anche Oreb, v.
- Sopra), dove rimasero circa un anno e dove il loro condottiero Mosè ricevette la legislazione di Dio.
La questione storico-topografica circa l’identificazione di questo celebre monte ha offerto occasione in tempi recenti a molte ipotesi, che si allontanano più o meno dall’identificazione tradizionale, secondo cui il Sinai è situato nella parte meridionale della Penisola Sinaitica.
Di dette ipotesi, invece, una lo colloca a oriente del Golfo Elanitico o di el-‛Aqabah, ov’è una catena di monti vulcanici che nell’antichità poterono essere attivi; un’altra, nel Ḥigiāz settentrionale; un’altra, nelle vicinanze di Cades a nord della Penisola Sinaitica, e altre ancora altrove: è da dire però che tutte queste ipotesi, suggerite più da ragioni d’interpretazione soggettiva del racconto biblico che da dati di fatto, non sono riuscite ad affermarsi neppur mediocremente di fronte all’identificazione tradizionale.
Questa tradizione, al contrario, mentre è rappresentata da testi scritti (Flavio Giuseppe; la Peregrinatio di Eteria, ecc.), da monumenti locali (convento di S. Caterina) e dalla trasmissione toponomastica (Gebel Mūsā, “monte di Mosè”), trova importanti conferme nell’identificazione dell’itinerario seguito dagli Ebrei dopo la loro uscita dall’Egitto.
Essi, oltrepassato l’istmo di Suez verso i Laghi amari, s’inoltrarono verso il sud seguendo un’antica pista carovaniera che fiancheggiava la riva orientale del Golfo di Suez ed era già praticata dagli Egiziani per recarsi a Sarābīṭ el-Khādim e alle circostanti miniere di turchese; le loro prime soste lungo questa pista furono a Marah, ove trovarono acqua salmastra, e poi a Elim, ove erano 12 fonti ( Esodo, XV, 23-27); e anche oggi negli stessi paraggi, da ‛Uyūn Mūsā (“fonti di Mosè”) verso sud, si trovano sorgenti più o meno salmastre.
Più a sud di Elim gli Ebrei abbandonando la pista che conduceva a Sarābīṭ el-Khādim volgendosi nel retroterra, s’inoltrarono ancora lungo la costa, e fecero la sosta detta del “Mar Rosso” ( Numeri, XXXIII, 10); piegarono allora verso il retrotetra e fecero la sosta di Dophqah ( Num,, XXXIII, 12; cfr.
L’egiziano malkat “turchese”), quindi quelle di Alush e di Raphidim (ivi, 14), la quale ultima sembra ben corrispondere all’odierno Feirān; dopo di essa entrarono nella regione del Sinai (ivi, 15). Ora, questo itinerario identificato con approssimativa certezza, conduce appunto alla località ove l’antica tradizione colloca il Sinai degli Ebrei e di Mosè.
Più che un monte isolato, il complesso della narrazione biblica ha in vista l’intero sistema montagnoso situato nella regione dove terminò l’itinerario degli Ebrei visto sopra. Questo nucleo montagnoso fu certamente lo scenario dei fatti degli Ebrei e di Mosè.
Una tradizione, confermata dal confronto dei luoghi, vuole che l’altipiano di ar-Rāḥah, ai piedi del Gebel Mūsā, sia quello dove il popolo ebraico assistette alla taumaturgica proclamazione della Legge; un’altra tradizione locale, molto meno autorevole, afferma che delle due cime del Gebel Mūsā quella meridionale sia il vero Sinai, e quella settentrionale (Rās aṣ-Ṣafṣāf) sia l’Oreb (v.).
Al Sinai gli Ebrei giunsero e s’accamparono tre mesi dopo la loro uscita dall’Egitto ( Esodo, XIX,1). Dopo una preparazione di tre giorni, in cui fu emanata a tutto il popolo la proibizione di avvicinarsi al monte sotto pena di morte, avvenne tra lampi, tuoni e squilli altissimi la prima teofania a Mosè, in cui fra altre leggi fu promulgato il decalogo (v.).
Altre volte in seguito Mosè salì sul Sinai, sia accompagnato da suo fratello Aronne e altri personaggi, sia da solo; rimanendovi in questa circostanza quaranta giorni, nel frattempo avvenne tra il popolo rimasto alle falde l’episodio dell’idolatrico vitello d’oro ( Esodo, XXXII, 1 segg.). Più tardi fu fabbricata ivi stesso l’Arca dell’alleanza (v.) e il tabernacolo (v.).
Dopo circa un anno di permanenza ai piedi del Sinai, il popolo si rimise in cammino sotto la guida di Mosè verso la Palestina. Il nuovo itinerario era il più diretto, puntando su Cades, che è quasi 80 km. da Bersabea, estremo limite meridionale della Palestina, e anche questo itinerario conferma l’ubicazione tradizionale del Sinai.
Secondo il Deuteronomio, I, 2, dal Sinai a Cades esisteva una distanza di undici giorni di cammino, e anche questa misura è stata controllata da studiosi recenti che hanno compiuto lo stesso viaggio attraverso il deserto at-Tīh in un tempo uguale; pure alcune soste di questo itinerario, le più vicine al Sinai, sono state verosimilmente identificate.
Allontanatisi gli Ebrei dal Sinai, il ricordo della montagna ove essi avevano ricevuto il nucleo della loro legislazione e costruito l’arca e il tabernacolo rimase grandioso nelle loro tradizioni, ma con la sacra montagna non risulta che fossero conservate relazioni; l’unica eccezione è l’oscuro episodio del profeta Elia (v.), che con un cammino di quaranta giorni si reca a “Oreb monte di Dio” ( I, XIX, 8 segg.).
I l S inai e il cristianesimo, – Il cristianesimo diede nuova vita alla regione del Sinai, che per devozione alle memorie di Mosè e di Elia si popolò di anacoreti. Già nel sec. IV la valle ai piedi del monte albergava numerose celle monastiche, e sul monte erano state costruite due cappelle in onore di Mosè ed Elia.
Ai tempi di Giustiniano, verso il 550, fu costruita l’attuale basilica, attorniata da potenti fortificazioni per protezione contro le razzie dei beduini, e ivi si raccolsero gli sparsi anacoreti; più tardi ancora la leggenda di S. Caterina di Alessandria invase il monastero e tutta la località, imponendo il suo nome e richiamando numerosi pellegrini cristiani al luogo dove gli angeli avevano trasportato il corpo della martire (v.
- Caterina d ‘ alessandria, santa).
- L e iscrizioni del S inai,
- Nel già ricordato Wādī al-Maghārah e specialmente nella località montuosa detta Sarābīṭ al-khādim (“cunicoli dello schiavo”), si trovano tracce cospicue di antichi lavori minerarî, nonché un santuario della dea egiziana Hathor, con numerose iscrizioni geroglifiche attestanti il culto della dea a partire dalla XII dinastia (circa 2500 a.C.) e per un lungo periodo posteriore a quest’epoca.
Ma la celebrità cui assurse questa località in tempi recenti è dovuta a un altro tipo di iscrizioni, 17 in tutto, incise rozzamente su un materiale molto scabro (il che ne rende difficile la lettura), le quali presentano una scrittura che appare a prima vista dipendente da quella geroglifiea, ma che si differenzia da essa e non si riesce a interpretare in lingua egiziana (v.
L’elenco dei caratteri alla voce alfabeto ). Le iscrizioni stesse furono scoperte dalla missione Flinders Petrie nella campagna di scavi del 1904-5 (una di esse era già stata veduta e disegnata dall’esploratore Palmer fino dal 1869), ma non vennero pubblicate se non nel 1917 da A.H. Gardiner e T.E. Peet ( The Inscriptions of Sinai, parte 1ª, Londra 1917).
Al primo di questi due egittologi non sfuggirono due caratteristiche dei nuovi testi, per la maggior parte assai brevi: il numero relativamente piccolo dei caratteri, tale da rendere facile la supposizione che si trattasse di un sistema di scrittura alfabetica, e la loro forma, risultante evidentemente da una semplificazione dei geroglifici.
Ricordando che l’alfabeto fenicio reca tracce evidenti di un’origine pittografico-ideografica e si fonda sul principio dell’acrofonia (ossia il suono espresso da ogni segno è la consonante iniziale dell’oggetto rappresentato pittograficamente), principio che si trova già nel sistema di scrittura geroglifica, benché non generalizzato né esclusivo, il Gardiner tentò la decifrazione delle iscrizioni di Sārābīṭ al-khādim sulla base dell’acrofonia, supponendo che le iscrizioni stesse dovessero essere scritte in lingua semitica: il segno, per es., che appariva una semplificazione dell’ideogramma egiziano dell’occhio era letto da lui ‛ (consonante iniziale della parola semitica ‛ ain “occhio”); a quello che appariva la semplificazione dell’ideogramma della casa assegnava il valore di b (iniziale di bait “casa”), ecc.
Con tale sistema egli riscontrò che un gruppo di quattro segni spesso ripetuti in ordine costante si poteva leggere b ‛ lt, le consonanti del nome Bah ‛ alat “signora”, che si poteva intendere riferito appunto alla dea Hathor, attestata dalle iscrizioni in lingua egiziana trovate nello stesso luogo.
Per questa via, in cui il Gardiner fu seguito da A. Cowley, K. Sethe e altri (un ingegnoso tentativo di H. Bauer di decifrare i caratteri col metodo combinatorio non ebbe fortuna), si credette di aver trovato nella scrittura “sinaitica” il prototipo dell’alfabeto semitico: i Semiti stanziati nel Sinai, addetti come operai nelle miniere del Wādī al-Maghārah, avendo avuto notizia della scrittura geroglifica egiziana, l’avrebbero adattata alla propria lingua, semplificandone i caratteri e applicando in maniera rigorosa il principio dell’acrofonia; l’alfabeto così creato avrebbe avuto larga diffusione e si sarebbe fissato definitivamente nella forma che poi gli avrebbero dato i Fenici: rimaneva aperta la questione se l’alfabeto dell’Arabia meridionale, alla cui diretta derivazione dal fenicio si oppongono varie difficoltà, non provenisse invece, indipendentemente, da quello sinaitico.
Questa teoria, che avrebbe risolto il dibattuto problema dell’origine dell’alfabeto, ebbe larghissima risonanza e trovò nel geniale, ma soverchiamente fantastico semitista H. Grimme un convinto assertore (v. specialmente Althebräische Inschriften vom Sinai, Darmstadt-Gotha 1923; Die altsinaitischen Buchstabeninschriften, Berlino 1929), il quale non solo credette di poter decifrare per intero le iscrizioni, ma vi trovò addirittura la menzione di Mosè, che sarebbe stato il capo degli operai addetti all’estrazione delle turchesi, mettendo così in relazione l’invenzione dell’alfabeto con le origini religiose e politiche degli Ebrei.
A parte questa fantastica costruzione (che naturalmente ebbe scarso credito), gravi difficoltà si oppongono all’accettazione della teoria dell’origine dell’alfabeto semitico dalle iscrizioni sinaitiche. Anzitutto l’impossibilità di giungere, per mezzo di essa, a letture soddisfacenti del testo delle iscrizioni stesse, sicché non è mancato chi, negando a queste ogni carattere di semitismo, ha tentato di interpretarle mediante l’egiziano, di cui rappresenterebbero una varietà dialettale.
In secondo luogo l’inverosimiglianza che da un ambiente di cultura non certo molto sviluppata, quale quello degli operai delle miniere del Sinai, e da una località appartata e isolata si diffondesse un nuovo tipo di scrittura, mentre la storia della diffusione di questa mostra che essa ha costantemente seguito le vie dell’espansione economica e culturale.
D’altra parte la scoperta dell’alfabeto di Rās Shamrah ha mostrato come nell’Oriente anteriore si siano avuti, nella seconda metà del II millennio a.C., svariati tentativi di semplificare i sistemi di scrittura fino allora in uso. Le iscrizioni sinaitiche rappresenterebbero uno di questi sistemi, ma non quello donde si è sviluppato più tardi l’alfabeto fenicio.
Rimane tuttavia insoluto il problema della decifrazione. Per “iscrizioni sinaitiche” s’intendevano, fino alla scoperta di quelle di Sarābīṭ al-khādim (le quali, appunto per distinguerle dalle altre, si sogliono chiamare “paleosinaitiche”), altre iscrizioni di tutt’altro tipo ed età, che si ritrovano, numerosissime, sulle pendici petrose delle vallate che salgono, nella regione SO.
- Della penisola, verso gli attuali conventi del Gebel Mūsā e del Gebel Kātherīn, specialmente nel Wādī Feirān.
- Esse sono graffite con caratteri strettamente connessi con quelli nabatei (v.), ma che presentano un tipo ancor più corsivo di essi; la loro lingua è anch’essa la nabatea, ma con forte influsso dell’arabo: gli autori di esse erano infatti etnicamente e linguisticamente Arabi, e si servivano del nabateo soltanto per la mancanza di una propria lingua letteraria.
La maggior parte delle iscrizioni (che ammontano a parecchie centinaia), sono assai brevi e contengono soltanto nomi proprî (quasi tutti arabi), accompagnati da brevi formule di saluto e di augurio; talvolta si hanno anche rozze rappresentazioni figurate, specialmente di cammelli.
Dopo che tali iscrizioni furono per lungo tempo ritenute opera di tribù nomadi stanziate nel Sinai, B. Moritz ha dimostrato che esse sono senza alcun dubbio dovute a pellegrini nabatei recantisi agli antichi santuarî del Sinai, e che sono da collocarsi tra il sec. I e III d.C. Queste iscrizioni furono notate dal viaggiatore e cosmografo bizantino Cosma Indicopleuste (v.), verso la metà del sec.
VI, il quale le attribuì agli Ebrei usciti all’Egitto sotto la guida di Mosè. Bibl. : Per il Sinai nella Bibbia, oltre ai commenti all’ Esodo, v.M.-J. Lagrange, Le Sinaï biblique, in Revue Biblique, 1899, pp.369-392; R. Weill, La presqu’île de Sinaï, Parigi 1908; H.J.
- Ll. Beadwell, The wilderness of Sinai.
- A record of two years’ recent exploration, Londra 1928; F.-M.
- Abel, Géographie de la Palestine, I, Parigi 1933.
- Per le iscrizioni paleosinaitiche, oltre agli scritti citati nel testo, bibliografia fino al 1929 di J.
- Leibovitch, in Zeitschr.d.
- Deutschen morgenl.
- Gesellschaft, LXXXIV, 1930, 1-14.
Per le iscrizioni nabatee, B. Moritz, Der Sinaikult in heidnischer Zeit, in Abhandl.d. Gesell.d. Wissenschaften zu Göttingen ( Phil.-hist. Kl.), XVI, 2, Berlino 1916. : SINAI in “Enciclopedia Italiana”
Come si Manifesto Dio a Mosè?
Narrazione biblica – Mosè e il roveto ardente, c.1450–1475, attribuito a Dieric Bouts, Nella narrazione si dice che un angelo del Signore apparve sul roveto, e come Yahweh, in seguito, si rivolgesse a Mosè, con voce proveniente dal roveto, mentre questi pascolava il gregge di Jetro,
Quando Mosè iniziò ad avvicinarsi, Dio gli disse di togliersi i calzari, poiché stava calpestando una terra santa, e Mosè si nascose la faccia tra le mani. Alcuni studiosi dell’ Antico Testamento considerano il racconto del roveto ardente come congiunzione tra i testi jahvisti e eloisti, con l’Angelo di Yahweh e la rimozione dei sandali facenti parte della tradizione jahvista e il parallelo eloista con il fatto che era Dio e il nascondersi il volto da parte di Mosè.
Quando viene sfidato sulla sua identità, Yahweh risponde ” Io sono colui che sono ” ossia Yahweh, Il testo fa derivare Yahweh (in ebraico : יהוה ? ) dal verbo ebraico hayah (in ebraico : היה ? ) che significa essere, Nella sua risposta, Dio prosegue che è il Dio dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe,
Il testo ritrae Yahweh come colui che dice a Mosè che lo sta mandando dal Faraone per portare gli israeliti fuori dall’Egitto, un’azione che Yahweh descrive come se avesse notato che questi erano oppressi dagli egiziani. Yahweh dice a Mosè di dire agli anziani degli israeliti che Yahweh li avrebbe condotti nella terra dei Cananei, Ittiti, Amorrei, Iviti e Gebusei, una regione generalmente indicata nel suo insieme con il termine “Cananea”, descritta come una terra di “latte e miele”.
Secondo la narrazione, Yahweh ordinò a Mosè di confrontarsi con gli egiziani e gli israeliti e lo informò su ciò che sarebbe accaduto e poi compì diversi miracoli dimostrativi per rafforzare la credibilità di Mosè. Tra le altre cose il bastone di Mosè venne trasformato in un serpente, la mano di Mosè divenne temporaneamente segnata dalla lebbra, e l’acqua fu trasformata in sangue. Una pietra granitica proveniente dall’area del monte Sinai mostra ciò che sembra essere una rappresentazione di un cespuglio, creata naturalmente da una concentrazione di ossido di manganese che si cristallizza in questa forma nella roccia. Mosè è descritto come molto riluttante ad assumere l’incarico, sostenendo che gli mancasse l’eloquenza e per questo dovesse essere inviato qualcun altro.
Nel testo, Yahweh reagì rabbiosamente rimproverando Mosè per la presunzione di tenere una conferenza a Colui che aveva detto chi era qualificato per parlare o non. Eppure Yahweh concesse e permise ad Aronne di essere inviato ad aiutare Mosè, poiché egli era eloquente e stava già andando ad incontrare Mosè.
Questa è la prima volta nella Torah che Aronne viene menzionato, e qui viene descritto come il portavoce di Mosè.
Chi salva Mosè?
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
Mosè | |
---|---|
Il Mosè di Michelangelo Buonarroti (1513-1516), basilica di San Pietro in Vincoli, Roma | |
Profeta | |
Nascita | Goscen in Egitto, XIII secolo a.C. |
Morte | Monte Nebo, XII secolo a.C. |
Venerato da | Tutte le Chiese che ammettono il culto dei santi |
Ricorrenza | 4 settembre |
Attributi | Con le Tavole della legge |
Manuale |
Mosè ( latino : Moyses ; Moisè in italiano arcaico ; in ebraico : משֶׁה, standard Moshé, tiberiense Mōšeh ; greco : Mωϋσῆς, Mōysễs ; in arabo : موسىٰ , Mūsā ; in copto : Ⲙⲱⲥⲛ, Mōsē ; ge’ez : ሙሴ, Musse ) fu per gli Ebrei il rav per antonomasia ( Moshé Rabbenu, Mosè il nostro maestro), e tanto per gli Ebrei quanto per i cristiani egli fu la guida del popolo ebraico secondo il racconto biblico dell’ Esodo ; per i musulmani, invece, Mosè fu innanzitutto uno dei profeti dell’ Islam la cui rivelazione originale, tuttavia, andò perduta.
- Il testo biblico spiega il nome “Mosè”, come una derivazione dalla radice משה, collegata al campo semantico dell'”estrarre dall’acqua”, in Esodo 2,10,
- Si suggerisce in questo versetto che il nome sia collegato all'”estrarre dall’acqua” in un senso passivo, Mosè sarebbe “colui che è stato estratto dall’acqua”.
Altri, prendendo le distanze da questa tradizione, fanno derivare il nome dalla stessa radice, ma con un senso attivo: “colui che estrae”, nel senso di “salvatore, liberatore” (di fatto, nel testo masoretico la parola è vocalizzata come un participio attivo, non passivo).
Nella lingua egizia, Mosè potrebbe significare fanciullo o anche figlio o discendente, come nei nomi propri Thutmose ( Dhwty-ms ), “figlio di Toth “, o Ramose ( R-ms-sw ), “figlio di Ra “. Secondo la tradizione, Mosè nacque dagli israeliti Amram e Iochebed, scampato alla persecuzione voluta dal faraone, venne salvato dalla figlia di quest’ultimo ed educato alla corte egizia.
Fuggì da ella a seguito d’un omicidio commesso ai danni di un sorvegliante e si ritirò nel paese di Madian dove sposò Zippora, figlia del sacerdote locale. Secondo la Bibbia nei pressi del monte Oreb ricevette la chiamata di Dio e, tornato in Egitto, affrontò il faraone chiedendo la liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù ; il faraone accoglierà la sua proposta solo a seguito delle dieci piaghe d’Egitto, ultima delle quali la morte dei primogeniti egizi.
Accampatosi con i suoi nei pressi di Yam Suf ( Mare di Giunco ), Mosè, su indicazione divina, divise le acque del mare permettendo così al suo popolo di attraversarlo e sommergendo infine l’esercito faraonico corso ad inseguirli. Dopo tre mesi di viaggio il profeta raggiunse il monte Sinai dove ricevette le Tavole della Legge e punì il suo popolo per aver adorato un vitello d’oro,
Giunto nei pressi della terra promessa, dopo 40 anni di dura marcia, Mosè morì sul monte Nebo prima di entrarvi. È considerato una figura fondamentale nell’ Ebraismo, del Cristianesimo, dell’ Islam, del Bahaismo, del Rastafarianesimo, del Mormonismo e di molte altre religioni.
- Per gli ebrei è il più grande profeta mai esistito, per i cristiani colui che ricevette la legge divina, per gli islamici uno dei maggiori predecessori di Maometto.
- La sua storia è narrata, oltre che nelle Sacre Scritture, anche nel Midrash, nel De Vita Mosis di Filone di Alessandria, nei testi di Giuseppe Flavio,
Mosè è venerato come santo dalla Chiesa Cattolica che lo commemora il 4 settembre.
Dove Mosè ha incontrato Dio?
I monti nella Bibbia sono simboli molto importanti: la loro altezza e solidità rappresenta lo spazio ideale per l’incontro fra Dio che dall’alto scende verso l’uomo e di questi che salendo si avvicina a Lui. Le tappe importanti della storia della salvezza si svolgono sui monti,
- L’ascesa o salita verso la montagna (cfr.
- I Salmi delle ascensioni: 120 – 134) indica il desiderio e l’impegno umano di avvicinarsi a Dio, che sta in alto, per una più profonda comunione con lui.
- Tra i vari monti, il monte Sinai è la montagna per eccellenza, dove Dio scende e Mosè sale per ricevere i suoi ordini: «Il Signore scese dunque sul monte Sinai, sulla vetta del monte, e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte.
Mosè salì» (cfr. Es 19,20). Su questo monte Dio si fece riconoscere come il Dio salvatore che camminava con il suo popolo uscito dall’Egitto, lo proteggeva durante il tragitto e se ne prendeva cura: «Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatto venire fino a me» (Es 19,4).
Sul monte Sinai si suggella l’Alleanza come reciproca appartenenza : «Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra!» (Es 19, 4- 5). Il Sinai non è solo luogo di rivelazione di Dio ma anche luogo dove Israele comprende la sua identità di popolo amato ed eletto,
Molti testi biblici affermano che nessuna altra montagna per quanto importante può competere con il primato del Sinai (cfr. Dt 32,2; Gdc 5,5). Il salmista prega: «O Dio, quando uscisti davanti al tuo popolo, quando avanzasti nel deserto, la terra tremò, i cieli stillarono davanti a Dio, quello del Sinai, davanti a Dio, il Dio di Israele» (Sal 68,8-9).
- Gli israeliti ritornati dall’esilio babilonese pregano: «, sul monte Sinai tu sei sceso, e hai parlato con loro (con i padri) dal cielo, hai dato loro giusti decreti, leggi di verità, statuti e comandi buoni» (Ne 9,13).
- Questa basilare esperienza di Dio comprende diversi aspetti.
- Anzitutto la percezione che Dio è trascendente, ‘diverso’ da noi, e noi creature fragili: «Sul far del mattino vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte, un suono fortissimo di tromba, tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da terrore» (Es 19,16).
La voce di Dio più importante del fuoco, del fumo, della nube elimina le distanze lo mostra vicino e crea intimità. Il Sinai non è soltanto il luogo dove l’incontro con Dio genera paura ma soprattutto il luogo della prossimità con Lui, l’inizio di un’appartenenza che si fa storia tra il Dio trascendente e vicino e gli israeliti fuggiti dall’Egitto che diventano popolo di Dio.